GAROFANO ROSSO FILM FESTIVAL, IL CINEMA DEL REALE DI GIANFRANCO PANNONE

MASSA D’ALBE – Nel week end conclusivo del Garofano Rosso Film Festival, il regista e cinedocumentarista Gianfranco Pannone è uno degli ospiti d’onore. La bella e ormai nota piazzetta tra le montagne, in mezzo alle luci calde e ai garofani rossi, in mezzo alle persone soprattutto, che sono arrivate a Forme di Massa d’Albe (L’Aquila), piccolo paesino dell’Abruzzo interno, da diverse zone d’Italia, ospita la presentazione del suo ultimo libro, È reale? Guida empatica del cinedocumentarista (2021, Artdigiland).
“Questo festival che si svolge ai piedi dell’Appennino, diretto da Paolo Santamaria e da bravissimi ragazzi, molti dei quali miei ex allievi del Centro sperimentale (Csc), trova il suo senso primario nel fare comunità, nel combattere lo spopolamento delle aree interne italiane, anche attraverso le residenze. È una formula vincente, segue la scia di Franco Arminio, paesologo ormai noto, e di Ambrogio Sparagna, musicista, che prima di altri hanno cercato di rivalutare, valorizzare, l’Italia interna. L’Italia non è solo costa o solo città”, ricorda Gianfranco Pannone.
Pannone è docente di regia presso il Master in Cinema e Televisione dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e di Cinema del reale al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Tra le sue pubblicazioni sono imprescindibili L’officina del reale (con Mario Balsamo, Cdg, 2009) e Docdoc – Dieci anni di cinema e altre storie (Mephite-Cinemasud, 2011), ma soprattutto Pannone ha all’attivo una trentina di opere come regista.
“La geografia di un luogo non può non influenzare i suoi abitanti, condiziona il modo di essere e di vivere”, continua Pannone: “La geografia è destino, è vero in un certo senso, ma è un destino attivo. Non definito. Non immutabile. Lo si può cambiare. Dobbiamo assorbire l’influenza e la bellezza dei luoghi, ma allo stesso tempo conquistarne di nuovi e magari sentire di appartenere a più di un luogo: io sono nato a Napoli e vivo tra Roma e Latina, luoghi opposti, ma per me tutti cari. L’arte serve anche a questo, a muovere la geografia di un luogo e trasformarla anche in mito”.
Non a caso il primo documentario a firma di Pannone, nel 1991, è Piccola America e tra i numerosi riconoscimenti, ha vinto nel 2001 il Festival di Torino con Latina/Littoria come miglior opera di non-fiction.
Pannone si rivolge a spettatori e lettori provocandoli sul concetto di realtà, di vero. È il fulcro del libro presentato. Quando si tratta di finzione c’è un patto non scritto con lo spettatore, esattamente come nella letteratura tra autore e lettore: “Nel cinema c’è la mediazione della sceneggiatura, ad esempio, nel documentario no, c’è l’impatto”, sottolinea Pannone.
“Il cinedocumentarista deve rispettare la realtà e non forzare la narrazione, non manovrarla a proprio piacimento come fa il regista di cinema. Bisogna chiedersi cosa è legittimo e cosa è urgente. L’urgenza può forzare la legittimità? È chiaro che i confini non sono netti. Ad esempio il bel Fuocoammare di Gianfranco Rosi è il frutto di un’urgenza. Però di base l’etica è fondamentale, è necessaria e imprescindibile per chi si occupa di persone, di luoghi. Della loro essenza, che non va snaturata. Michael Moore ad esempio fa film a tesi, che però hanno una loro onestà, in cui l’autore si mette in gioco anche fisicamente dichiarando il suo punto di vista sul mondo. Il cinema del reale ha diversi approcci, sicuramente però si mette in ascolto e non giudica, anche se è di difficile gestione. Perché tutto è un punto di vista, anche solo girare con la camera a spalla o la camera fissa”.
Quella dell’autore è quindi un’assunzione di responsabilità, una nuova luce su quel fondamentale ruolo intellettuale che negli anni si è affievolito sempre di più, una spinta alla presa di posizione, all’essere attivi e anche, soprattutto, umani, in un contesto in cui troppo spesso la società spinge alla passività e alla violenza: “Lo sguardo umano rosselliniano o, come diceva Visconti, antropomorfo è quel che resta fondamentale ancora oggi. Per me Rossellini che non giudica e osserva le contraddizioni della realtà e della società resta un maestro. Nell’episodio napoletano di Paisà, ad esempio, tra il soldato nero mandato a combattere in Italia e lo scugnizzo che vive alla giornata rubando c’è un bellissimo gioco di specchi che comporta un’empatia necessaria perché si evidenziano le miserie di entrambi. In questo sono attuali Rossellini, De Sica, De Santis, Visconti o Zavattini, nella capacità di dialogare con l’altro, di mettersi nei panni dell’altro e questo non deve essere prerogativa solo del cinedocumentarista e il cinema in generale, ma della vita”.
Dopo la presentazione del libro, cominciano le proiezioni della serata e il festival volge al termine: “Abbiamo vinto una bella sfida: creare un luogo di incontro, per il secondo anno consecutivo, in cui il cinema è uno strumento vivo per riflettere sulla realtà contemporanea. Rispetto al 2021, il pubblico è cresciuto, non solo numericamente ma anche nell’affezione verso il festival”, commenta il direttore artistico Paolo Santamaria. “Ci auguriamo che Garofano Rosso si confermi sempre di più un appuntamento di unione e apertura al dialogo, e, soprattutto, un luogo dove il cinema continua sia protagonista”.