PESCARA – Pescara capitale del capitone sotto il Regno di Napoli, cucinato fritto in scapece, arrostito sullo spiedo o a brodetto in olio aceto e cipolla. Tradizione acquisita dalla manodopera emiliana e veneta richiamate dal progetto della Piazzaforte difensiva, crocevia di smercio delle grosse anguille della stagione fredda con la Capitale del Regno e con il resto del Sud.
È ricco di rivelazioni, gustosi aneddoti e spunti di riflessione il libro La cucina pescarese nel tempo. Come si mangiava a Pescara e Castellamare (Tabula Fati editore) dove lo storico pescarese Licio Di Biase (nella foto durante la presentazione al Ritrovo del Parrozzo, a Pescara) racconta dei cibi con cui nel corso dei secoli i pescaresi si sono alimentati.
Un romanzo enogastronomico per molti versi straordinario, in cui l’autore viaggia alle radici della quotidianità del tempo e tira infine la sua conclusione – “a Pescara non c’è una cucina ma trasferimenti, contaminazioni gastronomiche” – confrontandosi con esperti, come Mimmo D’Alessio e Tino Di Sipio, attingendo foto da Tonino Di Loreto e notizie dagli articoli di Romeo Tommolini, da pubblicazioni di vari pescaresi, ma anche dai sonetti di Gabriele D’Annunzio e dai ricordi di alcune signore della città.
Uno sguardo dall’alto sulla città “senza rughe” come ha scritto il giornalista Giorgio Manganelli, un luogo dalle molte identità, una città giovane e meticcia da sempre aperta al nuovo e tutt’ora in fase di rielaborazione.
Di Biase distingue più ambienti a sé stanti: Pescara Colli di matrice teramana, Villa del Fuoco San Silvestro sotto influenza chietina, Pescara centro coinvolta appieno contaminata dallo sviluppo avuto dalla stazione ferroviaria, il Borgo marino nord che risente dell’influenza del Tronto e dell’asse adriatico a nord .
A riprova della contaminazione spagnola ecco spuntare una ricetta – a dir poco sacrilega per i cultori del genere – della porchetta allo zafferano. Ricetta geograficamente appartenente a quella imponente isola militare della Piazzaforte, l’attuale centro storico racchiuso per secoli nella cittadella militare borbonica, luogo in assoluto dei più contaminati culturalmente, e gastronomicamente, della città.
Il fiume, la storia, le vicende politiche e umane. Tutto ha contribuito a delineare un’identità composita alla città, mai impermeabile ai vari attraversamenti vissuti nel tempo.
Diverse le identità geografiche culturali e gastronomiche che compongono il mosaico che l’autore così bene ricostruisce sulla base delle dinamiche storiche individuando più narrazioni fondamentali. Quella di Castellamare collinare appunto, Pescara centro-Castellamare pianeggiante e il Borgo Marino nord, e l’area di Villa del Fuoco che muoveva dalla Piazzaforte alla zona di Fontanelle- San Silvestro.
Un romanzo di sapori e colori. Quelli dalla gente contadina delle famiglie arrivate dai centri del teramano per prestare manodopera al disegno borbonico, insediatesi sulle dolci colline di spalle alla linea di costa – la Castellamare collinare, oggi Pescara Colli- vocate alla coltivazione di vigne, olivo e grano. Dove la dieta quotidiana – pomodori e pane fatto in casa, cacigni, pizza di randigne sardelle e peperone fritto – si basava sulla biodiversità agricola degli orti e delle campagne. Ma anche maccheroni e timballo conditi alla teramana, caggionetti di ceci e con la preziosa scrucchiata di uva Montepulciano.
Materia di indagine è anche la tavola della Castellamare pianeggiante, oggi Pescara Centro, meticcia e indefinita, popolata da gente in movimento richiamata dallo sviluppo della stazione ferroviaria . Con il Borgo Marino Nord dove le famiglie di pescatori arrivati dal Tronto si confrontano con i locali sul modo di preparare il brodetto di pesce.
Il libro è anche il romanzo gastronomico della verace di Villa del Fuoco, borgo esteso dalla Piazzaforte a San Silvestro-Fontanelle, orientata (e influenzata) dal versante teatino e con identità storica propria, altro luogo di grande contaminazione gastronomica, racconta Di Biase, dove ogni famiglie allevava il maiale per proprio uso e consumo, dove coltivavano aranci e dove l’importazione/acquisizione del peperone “bastardone” fin da allora caratterizza molte preparazioni.