CAPESTRANO – Dopo avergli distrutto tartufaie e colture di ogni genere, i cinghiali sono arrivati a colpire persino la vite coltivata con la pergola, il tipico metodo abruzzese con cui la chioma della pianta cresce in orizzontale anziché in verticale e lo sviluppo del frutto avviene ad un’altezza tale da scongiurare l’assalto dell’ungulato.
“Ma oramai hanno imparato che azzannando i tronchi, la pianta viene giù e con essa tutti i grappoli”, sbotta Alfonso D’Alfonso (nella foto d’archivio in copertina), imprenditore agricolo di Capestrano (L’Aquila) alle prese con l’ennesima conta dei danni dopo la distruzione di 150 piante di vite, il 50 per cento del raccolto di patate e persino il danneggiamento degli ulivi che non sono più al riparo considerata la presenza di cervi e caprioli che non solo mangiano il frutto ma con le impalcature rovinano le piante.
“Il problema non è circoscritto al valore dell’uva, rappresentato dai 70 euro al quintale, ma è rappresentato dalla mancanza di prodotto da commercializzare – spiega – perché un quintale produce 50 litri di vino che equivalgono a 60 bottiglie, quindi mediamente 600 euro sul mercato”.
Ma i danni alla vigna sono solo gli ultimi in ordine di tempo, seppur i più incredibili considerando che “non era mai accaduto che si verificasse un attacco di questo tipo, il che significa che c’è anche un’evoluzione della fauna selvatica nelle tecniche di approvvigionamento del cibo”: nelle settimane precedenti, infatti, a D’Alfonso – che lavora circa 30 ettari con diverse colture – i cinghiali avevano compromesso le tartufaie e i campi di legumi.
“Non se ne può più dei proclami”, denuncia D’Alfonso, che sta facendo fare una perizia dall’agronomo per quantificare il danno. Nonostante, spiega, “alcuni tipi di danni, come quello da storno, l’uccello migratorio che in questo periodo attraversa il nostro territorio, non sono neanche contemplati dal regolamento del Parco nazionale del Gran Sasso e quindi non indennizzati”.
“Non possiamo sopportare anche questo costo, considerando che le semine dei cereali con il raddoppio di costo di gasolio e concime sono già a serio rischio. Non vale più la pena coltivare, considerando anche i danni da fauna selvatica”.
La soluzione? “Una strategia complessiva di governo del territorio”, dice D’Alfonso, “in cui ci sia il controllo delle specie, ad esempio attraverso la sterilizzazione, e la cattura con un piano strategico e non andando avanti alla rinfusa. Poi ovviamente servono gli indennizzi. Noi il tributo alla biodiversità siamo felici di pagarlo ma non possiamo più farlo da soli. Pensare che sia sufficiente la caccia o ridurre il problema alla presenza delle aree protette è sbagliato”, rileva l’imprenditore, “anche perché i cinghiali oramai sono ovunque, anche nelle città”.
Anche recintare, secondo D’Alfonso, non è una soluzione: “Ho sviluppato un rapido calcolo – dice – se dovessi recintare i miei 30 ettari l’investimento sarebbe di circa 200mila euro, sarebbe una follia dal punto di vista paesaggistico, oltre che economico. Se moltiplicassimo per tutte le aziende presenti avremmo un panorama completamente stravolto”.
“Il danno da fauna selvatica non è più un’eccezione come una volta”, fa osservare D’Alfonso, “quindi deve essere una misura contemplata nel Psr. È aumentata anche la presenza di istrici e tassi e i danni alle tartufaie non sono contemplati dagli indennizzi. Il tartufo, la coltura più pregiata che abbiamo, viene completamente compromessa e in quel caso non basta neanche la recinzione perché riescono a scavare anche ad un metro di profondità!”. (m.sig.)
LE FOTO DEI DANNI ALLA VITE