ARROSTICINI, MA QUALE SIMBOLO DELL’ABRUZZO! SOLO UNA MANIA TRA I GIOVANI

PESCARA – Gli arrosticini? “Una mania identitaria specie tra i giovani, un autoriconoscimento, una spilla al valore. Il fatto che è diventata una identità però non vuol dire che gli altri te lo riconoscano: vedi la storia degli arrosticini cotti col burro, insomma si pretende sia una bandiera indiscussa, ma non lo è”.
A rompere il tabù degli arrosticini incriticabili e da assurgere a tutti i costi a prodotto simbolo dell’Abruzzo, ci ha pensato l’antropologa Lia Giancristofaro. In un’intervista all’Ansa sull’eredità storica dei Moti aquilani del febbraio 1971, l’associata di discipline demoetnoantropologiche dell’Università d’Annunzio di Chieti e Perscara, ha rilevato come “l’Abruzzo come idea fino all’800 non esisteva: è stata una invenzione degli intellettuali. L’Abruzzo è’ una invenzione istituzionale”.
“Certo, c’era una vita sociale e commerciale, ma la riflessione sull’identità non esisteva. Un contadino di Guardiagrele non sapeva di essere ‘abruzzese’, lui si riferiva al suo contado, magari fino a Lanciano. Tant’è che per decenni li abbiamo chiamati gli Abruzzi e che la prima frattura viene col 1963 quando il Molise decise di separarsi. Cioè in realtà non si capisce bene dove inizia e dove finisce questa identità, prima geografica poi culturale, perché l’identità è un luogo culturale, e infatti per traghettare questa immagine ci si mette anche d’Annunzio, con la Figlia di Iorio, la terra selvaggia, feroce, il demonio ecc, e in tutto questo c’è un fondo di verità, perché l’Abruzzo è una terra selvaggia”.
“Infatti qui l’uomo ha fatto poco e male”, ha aggiunto la Giancristofaro, “vedi per esempio quello che è stato fatto nelle terre del Prosecco che sono diventate patrimonio dell’Umanità e Pescara: il no al cemento e la costa abruzzese, perché va detto che se l’estetica è l’insieme di agricoltura integrata nell’ambiente, anche la città lo è. E il consumo di suolo è una forma di alienazione, magari non consapevole, ma che sfrutta l’occasione storica e dipende dal governo del territorio”.
“A ben vedere quindi l’Abruzzo è una regione di separati in casa e quindi da questo punto di vista da gente alienata e stressata”, riflette ancora l’antropologa.
La studiosa a 50 anni da quegli eventi riflette anche sul fatto che non mancano nemmeno oggi segnali di quel disagio: “Gli abruzzesi infatti sono un popolo bilingue e se parlano inglese, anche trilingue. Mi ha sempre fatto molta specie che gli abruzzesi tendano a parlare in dialetto con gli estranei, sembra che non se ne rendano conto, ma per un abruzzese è scontato – prosegue – purtroppo il nostro dialetto non ha una carica espressiva, è paradossale ma negli ultimi decenni un po’ a sdoganarlo ci ha pensato Antonio Di Pietro, ma non ha allure: è un dialetto senza una identità marcata ma gli abruzzesi pensano di averla e che accade? Che non siamo riconoscibili in quanto parlanti un dialetto che invece all’esterno risulta cafone”.
“C’è un tratto tipico che è la sfiducia e la paura dell’altro: non ci si apre, confessiamolo. Siamo rimasti come il papà di John Fante, la nostra è una famiglia disfunzionale: la sfiducia è uno dei vissuti del territorio orografico fatto di separazioni e di endogamia frequente”, conclude.
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