FIOCCO LILLA, STORIE DI RINASCITA: LA LOTTA DI SIMONA AI DISTURBI ALIMENTARI

L’AQUILA – Ricorre oggi la giornata nazionale del “fiocchetto lilla” promossa per tenere accesi i riflettori sui disturbi del comportamento alimentare (Dca) o disturbi dell’alimentazione.
Sono patologie caratterizzate da una alterazione delle abitudini alimentari e da un’eccessiva preoccupazione per il peso e per le forme del corpo. Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza e colpiscono soprattutto il sesso femminile.
L’occasione è anche quella di raccogliere delle testimonianze sulla lotta contro questi disturbi. Come quella di Simona Scimia, aquilana di 24 anni che parla di sé in prima persona e lo farà anche attraverso i suoi canali social, con delle dirette dedicate
LA STORIA
Ho passato tutta la vita a pensare di essere forte e imbattibile, di farcela a tutti i costi da sola, fino a quando la vita mi ha presentato il conto.
“Si può davvero toccare il fondo?” pensai. Ebbene sì. Andava tutto a rotoli, e anche quelle cose, quelle piccole cose che andavano bene, per me andavano male.
Il Dca, disturbo del comportamento alimentare è una brutta bestia. Nessuno lo vede, nessuno ne sa niente, e fino a quando non ti tocca da vicino, agli altri risulta sempre una “follia”.
“Sei un chiodo, mangia no? Tanto che gli fa!”.
“Mi sembri anoressica”.
Tutte affermazioni che spesso vengono dette con superficialità non sapendo che possono fare male, anzi malissimo al diretto interessato.
Non riuscire a spiegare un’anoressia nervosa restrittiva, non ha fatto altro che incrementare il mio malessere e sentirmi sempre più incompresa e giudicata.
“Sei tanto intelligente, che ti dice il cervello?”.
Ecco, purtroppo l’intelligenza non c’entra niente, perché anche il cervello, come tutti i nostri organi può ammalarsi.
Il Dca infatti è in primo luogo una malattia mentale che va a riguardare un’alterazione del comportamento alimentare e la percezione corporea. Tutto questo sottende un’espressione di sofferenza e malessere che ha radici molto profonde, e nella fase più acuta fa manifestare il sintomo attraverso il corpo.
vorrei si capisse che la gravità di un disturbo alimentare non si misura in base alla taglia o al peso; se una persona mangia oppure no; se ha crisi o sembra vada tutto per il meglio. Perché il “mostro” è dentro di noi, nei pensieri che abbiamo e che in ogni momento della giornata possiamo avere. Siamo in lotta continua con quella voce “malata” che ti fa vedere cose che non sono vere e ti danno una percezione alterata della realtà.
Sono Simona, ho 24 anni e soffro di Dca da un paio di anni, o così dicono.
non voglio parlare della malattia in sé, perché oggi vorrei dare un messaggio di speranza, vorrei soffermarmi sulle sensazioni, su come ci si sente e quanto la malattia vada ad influire con i rapporti interpersonali.
Nella fase di accelerazione del disturbo, la voce dentro di me (che avevo chiamato Nagaia) ha preso il sopravvento non lasciandomi spazio di azione.

Simona Scimia
Nagaia non aveva fame, non mangiava, non si riusciva a vedere allo specchio e addirittura non riusciva nemmeno più ad uscire con i suoi migliori amici e passava le giornate chiusa in stanza, su un letto, a dormire o piangere senza motivo.
Fortunatamente però, ho degli amici con la A maiuscola che non mi hanno mai abbandonata, anzi, hanno fatto un lavoro di squadra insieme alla mia famiglia per starmi accanto e indicarmi la strada migliore da percorrere, verso la guarigione.
Era il 12 ottobre quando alla visita specialistica mi avevano detto che da lì a 2 giorni avrei potuto morire se non avessi reintegrato del cibo nel mio corpo.
Non volevo vedere nessuno. Avevo allontanato tutti, ma quella sera, fuori la porta di casa avevo trovato un pacco rosa. “il pacco del buon umore per quando saremo lontani”.
era da parte dei miei amici. Lo avevano pensato bene bene e non mancava niente… subito dopo il pacco, mi sono ritrovata loro davanti, che senza darmi il tempo di parlare, mi hanno fatto una “strigliata” come si deve per dirmi che dovevo prendermi cura di me, poi mi hanno abbracciata: “non sei sola. Noi saremo sempre con te”.
Benissimo. Quando trovate persone così non potete far altro che tenervele davvero strette e fidarvi di loro.
E così ho fatto. Molto probabilmente non li ho mai ringraziati abbastanza, ma dico(con il senno di poi) che quella sera mi hanno salvato la vita. Mi hanno dato tutto il coraggio di cui avevo bisogno.
Ecco. Coraggio… è una parola che usiamo spesso ma che non sappiamo mai fino in fondo cosa significhi, fino a quando avere coraggio è l’unica cosa che ci resta per poter andare avanti.
Affrontare un percorso riabilitativo in un centro per disturbi alimentari, non è un gioco da ragazzi, e va ben oltre quello che si può immaginare.
Il mio percorso è avvenuto all’interno di Palazzo Francisci a Todi, primo in Italia.
Se ripenso al primo giorno lì dentro, ho ancora i brividi. Costantemente messa davanti al “mostro” principale: il cibo.
Avrei voluto scappare. Tornare indietro. Uscire da lì. Poi però mi sono fermata e ho pensato al perché ero lì dentro. Guarire era l’ultima cosa. Ero lì dentro per riappropriarmi della mia vita. Per tornare ad essere viva e finalmente libera senza lasciare spazio alla “voce” della malattia.
Avevo capito che tutto ciò che mi stava aspettando fuori da quel palazzo, gli amici, la mia famiglia, la scuola di musica erano, e sono ancora oggi, più importanti di tutto il resto. Se non riuscivo ancora a farlo per me, avrei dovuto farlo per loro.
Il percorso all’interno di un centro, se preso nel verso giusto, può davvero cambiarti la vita. È un gioco di squadra con la propria equipe composta da psicologo e nutrizionista sempre pronti ad aiutarti e supportarti. È a loro che devo la vita nel vero senso della parola, e gliene sarò grata per sempre.
all’interno del ricovero ho avuto tanto tempo per pensare solo ed esclusivamente a me stessa. E se la vita al di fuori scorreva veloce, un giorno lì dentro era quasi una settimana “fuori”.
il tempo non scorreva mai. Sempre scandito, sì, ma inesorabilmente lungo. Un tempo che ti chiede tempo, pausa, riflessione. E allora non puoi far altro che immergerti dentro di te, guardare in faccia i tuoi mostri, rimboccarti le maniche e sconfiggerli uno ad uno.
Leggevo molto lì. E potrei dirvi che alcuni libri mi hanno aiutata a riflettere e cambiare rotta. Ma non ho voglia di dare potere a un oggetto inanimato.
Potrei anche parlarvi di miracoli. Dentro al centro ho sentito spesso la voce di genitori speranzosi, che parlando con persone specializzate dicevano “voi state facendo miracoli”.
E invece no. Fanno qualcosa in più. Ci credono. Ci credono anche da parte tua se in quel momento non sei in grado di farlo, ti infondono coraggio da mattina a sera ed è quello che fa la differenza.
Ma la cura più importante sapete qual è ? L’amore.
Ad oggi non sto raccontando una storia triste, bensì la più bella storia d’amore che si possa vivere. Quella verso se stessi e verso la vita.
Ammetto che non è stato tutto merito mio. Il destino ha fatto sì che trovassi una persona, seppur lontana, che mi facesse da specchio riflesso, che mi mostrasse la parte più profonda e più vera di me.
Mi ha fatto credere nelle mie capacità e potenzialità e ha fatto sì che io mi innamorassi prima di me stessa, poi della vita, e poi di…
È stato un percorso faticoso, è vero, ma mi ha donato tanta consapevolezza, nuovi occhi e una nuova vita.
È stato un viaggio alla scoperta della vera me, e devo dire che adesso mi piaccio davvero tanto.
La strada potrebbe essere ancora molto lunga, perché un disturbo del genere non passa da un giorno all’altro.
“Quando uscirai da qui se qualcuno ti dice ‘ah ma allora se mangi stai bene’, ti autorizzo a dire che il tuo terapeuta del centro ha detto che sei in convalescenza per almeno un anno e nessuno deve romperti i c…..i” (cito testualmente il mio terapeuta del centro ).
Però oggi vi dico che è vero che ci sono molte persone che muoiono. E questo purtroppo è un dato triste e raccapricciante perché non essendo una malattia che si può toccare con mano, e non sempre è visibile, appunto, c’è tanta disinformazione e spesso viene presa sottogamba.
Ma è vero anche che ci sono tante altre ragazze o ragazzi, come me, che lottano giorno dopo giorno e guariscono.
Si impara tanto da queste esperienze, e vi dico che ho capito che chiedere aiuto non significa essere deboli, ma essere ancora più forti e coraggiosi, perché solo chi ha coraggio può riconoscere di non farcela da solo in un preciso momento della vita, e di avere una mano al proprio fianco che lo aiuti a rialzarsi.
E ho imparato anche, che come un’araba fenice rinasce dalle sue ceneri, è dal dolore che si può ricominciare.
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