La cucina africana conquista il mondo, ma non chiamatela etnica
ROMA – Le diatribe sul significato e sull’utilizzo, proprio o improprio, del termine etnico si sono sprecate negli ultimi anni. Una cosa è certa, la cucina africana non è circoscrivibile solamente a questo termine.
Si tratta di un movimento gastronomico legato al panafricanismo. Gli obiettivi di questa rivoluzione globale nata ufficialmente a partire dal 1900 sono sempre stati affini all’incoraggiamento dei rapporti solidali fra i gruppi della diaspora africana, ossia alla migrazione, il più delle volte costretta, che è avvenuta nel corso dei secoli di questi popoli in tutto il globo.
Dove si cerca di dividere, il panafricanismo ha sempre voluto unire, a livello strettamente politico e identitario, dando il là anche a ramificazioni a più ampia scala. Anche settori come l’arte, la musica e la danza hanno fatto loro questo principio di unificazione. Non da meno è stata l’idea di una cucina comunitaria, in grado racchiudere al di sotto di un unico termine una tradizione millenaria.
È sempre difficile spiegare e comprendere macro-definizioni come quella in questione, per via della grande espansione geografica del termine stesso, ma anche a causa dell’ammontare dei piatti e dei prodotti diffusi in queste zone. Basti pensare all’Italia e al patrimonio che ogni singola regione possiede.
Quello che rende unica la cucina africana è, però, proprio il senso di unitarietà che è riuscita ad affermare nel corso del tempo. Le battaglie alla carbonara con la panna o senza sono l’eco di qualcosa di lontano. Alla base di tutto, qui vi è l’influenza di tutto il mondo.
La diaspora africana ha portato gli abitanti del continente negli Stati Uniti, in Sudamerica e anche in Medioriente. Queste “esperienze” internazionali hanno portato alla nascita di una nuova idea di gastronomia identitaria. La tratta transatlantica ha contribuito alla diffusione di ingredienti africani oltreoceano e viceversa.

Riso Jollof del Roots di Modena
Nel cuore di una qualsiasi città europea è possibile trovare un ristorante serve jollof rice accanto a tacos jerk e cocktail a base di sorrel. “Benvenuti nella cucina africana, dove il gusto è globale, ma le radici affondano in secoli di resistenza e creatività”, potrebbe essere il motto di questo movimento.
Tra i piatti simbolo di questa sorta di riforma identitaria è presente il riso jollof, ricetta dell’Africa Subsahariana a base di riso, pomodoro, peperoni, aglio, erbe aromatiche e spezie. Non mancano le samosa, le declinazioni del granturco e delle patate, il vino di palma e piatti che richiamano le spezie jerk giamaicane e gli stufati brasiliani.

Riso Jollof del Roots di Modena
Tante contaminazioni e altrettante personalità che oggi si sono fatte ambasciatrici di questo movimento gastronomico, per tutelarlo, ma ancor di più per divulgarlo. Oggi la cucina africana non è più ai margini della ristorazione mondiale. una nuova generazione di cuochi sta riscrivendo la storia e le regole di questa diffusione.
Uno dei volti più noti è Pierre Thiam, chef senegalese, autore di libri e ambasciatore del fonio, un antico cereale africano. Il suo ristorante a New York, Teranga, è diventato un modello di cucina africana contemporanea, accessibile e sostenibile. Thiam non si limita a cucinare e ha scelto di promuove la filiera agricola africana, creando un ponte economico tra contadini dell’Africa occidentale e il mercato globale come autore e attivista.
Altrettanto significativa è l’esperienza di Selassie Atadika, chef ghanese fondatrice del progetto Midunu ad Accra, in Ghana. Atadika unisce l’alta cucina al rispetto per la biodiversità e la stagionalità africana. I suoi piatti sono spesso parte di degustazioni multisensoriali che raccontano storie di donne, famiglie e rituali africani, con un approccio quasi antropologico. Tra gli ingredienti qui impiegati immancabili sono l’okra, il dawadawa e i funghi twenwodro.

L’okra
Negli Stati Uniti, la cucina africana incontra anche la questione razziale. Mariya Russell, originaria di Chicago, è stata la prima chef afroamericana a ottenere una stella Michelin. Uno stile raffinato e introspettivo che coniuga tecniche giapponesi e influenze afroamericane, dimostrando come l’identità possa passare anche per le contaminazioni.
Anche l’Italia, nonostante il panorama sia ancora in costruzione, non mancano nomi da seguire. A Modena il progetto Roots:, nato da un team tutto femminile, porta in tavola piatti senegalesi, eritrei, ivoriani e somali reinterpretati con eleganza e autenticità. Non solo un ristorante, ma una vera scuola di empowerment che unisce cucina e formazione professionale per donne migranti provenienti da tutto il mondo.
Molti di questi progetti si muovono tra attivismo culturale e imprenditorialità sociale con l’obiettivo di restituire dignità e valore a una tradizione spesso resa invisibile. Il cibo diventa così non solo mezzo di sostentamento, ma uno strumento di comunicazione, connessione e riscatto. La cucina africana ha saputo fare di tutto questo un modello su cui basare la propria ascesa. Il futuro della gastronomia passa anche da qui, dalla capacità di ascoltare storie lontane e farle risuonare nei piatti di oggi.
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