Le città e la fame, quando il cibo diventa politica urbana
ROMA – Durante le crisi politiche e ambientali, i camion a stento varcano le soglie della città e gli scaffali dei supermercati si svuotavano in poche ore. È in queste occasioni che molte realtà nel mondo hanno scoperto la loro fragilità alimentare.
Bastano pochi giorni di blocco nelle catene di approvvigionamento globali perché milioni di persone rischino di trovarsi senza accesso a beni di prima necessità. È un campanello d’allarme che mette in luce un paradosso: le metropoli, spesso centri di ricchezza e innovazione, sono allo stesso tempo i luoghi più vulnerabili alla fame.
Da qui, negli ultimi anni, è nato un movimento diffuso che potremmo chiamare “politica urbana del cibo”. Progetti comunitari, mercati locali, orti urbani, iniziative pubbliche e private per garantire che le città non restino ostaggio di crisi globali.
Fino a pochi decenni fa, parlare di cibo in politica urbana significava discutere di mense scolastiche o di regolamenti sanitari. Oggi il discorso è cambiato e il cibo è entrato nelle agende strategiche delle città, accanto a trasporti, casa ed energia.

Orto urbano a Parigi – foto Arthur Jeune
Nutrizione, sì, ma anche sicurezza, equità sociale e coesione comunitaria. New York ha creato un ufficio specifico per coordinare gli interventi contro l’insicurezza alimentare, che colpisce quasi un cittadino su cinque. Milano, nel 2015, ha lanciato il Milan Urban Food Policy Pact, firmato da oltre 250 città nel mondo, impegnando le amministrazioni locali a promuovere sistemi alimentari più equi e sostenibili.
Uno dei fenomeni più visibili di questa trasformazione è la crescita degli orti urbani. A Parigi il progetto Parisculteurs punta a coltivare decine di ettari sui tetti e negli spazi verdi inutilizzati. A Berlino la Prinzessinnengarten è uno dei più grandi esempi di giardino comunitario, un luogo di aggregazione e di sperimentazione sociale.
Gli orti non sfamano milioni di persone, ma restituiscono alle comunità il senso di controllo diretto sul cibo, riducono la distanza tra cittadini e natura, diventano spazi di educazione alimentare per scuole e famiglie e rafforzano i legami nei quartieri. La loro importanza non è misurabile in chilogrammi di insalata prodotta, ma nella coscienza collettiva che si sviluppa attorno al valore del cibo.

Prinzessinnengarten Kollektiv a Berlino
Accanto agli orti, le città stanno riscoprendo i mercati agricoli locali. In Italia i mercati a chilometro zero si sono moltiplicati, da Torino a Roma, attirando migliaia di famiglie che cercano prodotti freschi e trasparenti.
In America Latina, città come Bogotá hanno sostenuto direttamente il collegamento tra produttori rurali e mercati urbani, tagliando fuori intermediari e abbassando i costi. Questi luoghi rappresentano un sostegno all’economia locale e contribuiscono a ridurre l’impronta ecologica legata ai trasporti, oltre a creare un rapporto di fiducia tra chi produce e chi consuma. Tuttavia, restano spesso di nicchia.

Orto urbano a Parigi – foto DEVE
I prezzi più alti rispetto alla grande distribuzione rischiano di escludere proprio le famiglie più vulnerabili. La sfida politica sta nel trasformare questi mercati in strumenti capaci di garantire accesso al cibo sano a tutte le fasce sociali.
Se da un lato i quartieri benestanti possono permettersi di scegliere prodotti biologici e locali, dall’altro cresce nelle stesse città la povertà alimentare. A Londra le food banks hanno registrato un aumento costante delle richieste. In Italia, i pacchi alimentari distribuiti dalle associazioni sono diventati parte integrante della vita quotidiana di decine di migliaia di famiglie.
La contraddizione è evidente. Metropoli traboccanti di ristoranti e supermercati convivono con zone dove procurarsi un pasto completo diventa una lotta. È qui che il ruolo della politica diventa cruciale, con programmi di sostegno alle mense scolastiche, buoni pasto sociali e incentivi alle cooperative di quartiere che tentano di colmare il divario.
Il nuovo paradigma porta con sé luci e ombre. Da un lato si riduce la dipendenza dalle filiere globali e aumenta l’attenzione alla sostenibilità e all’educazione alimentare. Dall’altro, resta il problema della scalabilità, con orti urbani e mercati locali che non possono sfamare milioni di persone, e spesso i costi restano alti.
Non mancano i rischi di greenwashing, quando le amministrazioni usano progetti simbolici per vantarsi di sostenibilità senza cambiare realmente il sistema. E i conflitti di interessi con la grande distribuzione o le lobby agroalimentari spesso rallentano l’espansione di queste iniziative.
La domanda che rimane aperta è se queste esperienze rimarranno iniziative isolate o se diventeranno parte di una nuova architettura urbana del cibo. Immaginare una città che pianifichi non solo i trasporti, le case e il lavoro, ma anche come nutrire i suoi abitanti significa ripensare radicalmente il ruolo dell’amministrazione pubblica. Ogni orto sul tetto, ogni mercato contadino, ogni progetto di distribuzione solidale è un tassello che risponde a una domanda fondamentale: chi ha diritto a mangiare bene nelle nostre città?
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