Vinitaly 2022 09 Apr 2022 19:05

ABRUZZO AL VINITALY CON LA STORIA: TREBBIANO E MONTEPULCIANO, I NETTARI PREGIATI DELLA TERRA DI OVIDIO

uva vigneto villamagna

SULMONA – Il vino è un fondamento storico del Mediterraneo, il segno maggiormente visibile e distintivo della civiltà fiorita nel primo millennio a.C. per opera dei greci e diffusa poi dall’impero romano. Uno dei primi nettari d’eccellenza menzionati già nei papiri egizi risalenti al III sec. a.C. è l’Hadrianum, il vino prodotto nell’ager Praetutianum, situato a sud della zona picena che comprendeva, così come oggi, il territorio della splendida città di Atri, in provincia di Teramo. A rendere merito a questo territorio dell’Abruzzo è stato lo storico greco Polibio, vissuto tra il 205 e il 123 a.C., che evoca l’area Piceno – Aprutina per la qualità dei suoi vini.

Più tardi, nel II libro degli Amores (16, 1 – 10) firmato dal sulmonese Publio Ovidio Nasone, che descrive la natia area peligna come terra ferax Ceresis, multoque feracior uvae (ovvero fertile di grano e ancor più di uva), il bianco Trebulanum, ovvero il Trebbiano d’Abruzzo entrerà a pieno titolo nella storia della Roma caput vini.

“Volli spesso smorzare il mio fuoco con il vino, ma l’ebbrezza accresceva ed era fuoco nel mio fuoco”: con questo alato verso il lascivus cantore elegiaco, perfetto interprete della salottiera Roma imperiale, sublimava la convergenza tra i ricchi grappoli della sua terra e il fuoco, elemento naturale che unisce il calore del mondo alla passione e all’ardore degli uomini.

Da Ovidio in poi, dunque, il vinum e Bacco (il dio romano che gli antichi credevano generato due volte, la prima da Semele, la dea della Terra, e la seconda dalla coscia di Zeus) diventano i vigorosi simboli dell’Urbe, non tanto per bontà o virtù ma, de jure et de facto, in quanto le legioni dell’imperator et divus Augustus obbligavano tutti i popoli sottomessi a piantare la sacra vitis vinifera prima di ogni altra coltura. Un vincolo, questo, frutto soprattutto di un sotteso e mirato calcolo politico: la vite, infatti, era l’emblema della forza, della durata e della stabilità dell’occupante.

Prima di Gaio Giulio Cesare Ottaviano, a rendere onore a quel vino che oggi è divenuto il vero ambasciatore nel mondo della regione verde d’Europa, ovvero al rosso Montepulciano d’Abruzzo è stato Annibale Barca. Nel 216 a.C., transitando lungo gli itinera callium, all’indomani della vittoria di Canne ottenuta proprio sui Romani, il leggendario generale cartaginese usò il nettare rosso rubino prodotto nella futura Regio IV Samnium per curare e guarire i suoi cavalli dalla scabbia ristorando, nel contempo, le gole assetate delle sue milizie polverose ed elogiando, di fatto, le proprietà salutistiche proprie del Montepulciano.

Dal bianco Trebulanum al rosso Montepulciano la strada è breve, anzi brevissima: secondo alcune testimonianze, infatti, il vitigno a bacca bianca preferito da Ovidius Naso, pur essendo santificato dalle enciclopedie del vino come fresco liquido giallo paglierino, dal vinoso profumo delicato, gradevole e dal sapore asciutto, sapido, vellutato e soprattutto armonico non era considerato di gran pregio e veniva bollato come il “vino dei soldati”, visto il grande successo che riscuoteva tra i graduati di truppa dell’esercito romano.

A mettere ordine e sostanza nei calici dell’aristocrazia romana ci pensa Plinio il Vecchio che nella sua Naturalis Historia (XIV, 67) definisce “pregiati” e addirittura “masticabili”, ovvero molto strutturati (e quindi ricchi di tannini), i vini prodotti nella zona adriatica citando testualmente quelli di Ariminum, Ancona e il Pretunian.

E sui concetti sensoriali descritti da Plinio arriva anche la firma prestigiosa dello scriba quaestorius Quinto Orazio Flacco, specificando che il Montepulciano d’Abruzzo degustato nei triclinia dell’imperium era fumido, raramente limpido e che spesso veniva filtrato con un passino (colum) dagli haustores, i sommelier dell’epoca.

Non poteva mancare, infine, in questo circostanziato excursus storico il giudizio autorevole dell’epigrammista di Bilbilis, Marco Valerio Marziale, il quale pur non accodandosi al circolo dei lusingatori e nel confermare fondamentalmente la valenza delle uve abruzzesi, si sofferma sugli ottimi metodi di irrigazione che, a suo dire, potenziavano il primordiale sarchiello rendendo molto aspri i vini peligni e quindi degni di essere bevuti nei bronzei calix soltanto dai liberti.

Oggi l’uva Montepulciano ha un carattere forte e traccia indicatori distintivi facilmente rilevabili: il rosso rubino in tutte le sue sfumature dai toni purpurei violacei in gioventù che volgono al granato dopo alcuni anni; il caratteristico profumo di frutti rossi piccoli e turgidi nei vini che nascono più vicino al mare, diventando polposi e intensi verso la montagna; intensità ed etereità sono le note comuni con richiamo alla radice di liquirizia nel finale. Il gusto è secco, complesso, armonico, fresco e sapido, di rimandi salmastri marini sulla costa e con spiccate mineralità saline avvicinandosi alle colline e alle vette dell’Appennino; nel finale, ritornano frutti rossi arricchiti di naturale speziatura e tostatura, due piacevoli sorprese per sublimare, in chiusura, il palato degli evergeti di questo vino. Stanislao Liberatore


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