Viaggio nella Vallesina patria del Verdicchio che cambierà nome per privilegiare Matelica

MATELICA – L’unica valle delle Marche disposta longitudinalmente, in cui la montagna fa da barriera naturale al volano termico del mare, ma dove il soleggiamento è mediterraneo perché siamo al 43esimo parallelo. L’essenza del Verdicchio di Matelica è tutta qui, racchiusa nella Vallesina, 8 comuni da Camerino (Macerata) a Fabriano (Ancona) dove una ventina di produttori – molti di prima generazione – da circa 340 ettari danno vita a due milioni e mezzo di bottiglie. Una produzione limitata – quasi un decimo di quella dei cugini dei Castelli di Jesi, da cui li separa il monte San Vicino e, fino ad oggi, la sorte commerciale – ma di assoluta qualità.
L’enologo Roberto Potentini per spiegarlo – meglio di chiunque altro – ha scelto proprio la strada che sale sulla montagna, quota 1.500 metri, punto di vista privilegiato sull’intera valle: “Inverni rigidi ed estati calde creano un prodotto dal profilo sensoriale estremamente caratterizzato, quindi scientificamente tipico”.
Il Verdicchio di Matelica per colui che lo ha portato ai massimi riconoscimenti è lo stereotipo del concetto di terroir perché “quel vitigno, quel territorio, quelle condizioni ambientali – temperature, clima, piovosità, ecc – quel know how, cioè quella storicità del saper fare, messi tutti insieme danno origine a un prodotto unico e irripetibile. Tipico”, avverte Potentini, “non significa più buono, ma che ha un profilo sensoriale irriproducibile fuori dal sito storico”.
E se le condizioni ambientali concorrono in modo determinante a caratterizzare un prodotto molto diverso da quello dei vicini Castelli di Jesi, a fare il resto ci pensa l’affiatamento tra i produttori che in questa raccolta valle – circa venti chilometri di lunghezza – vogliono far emergere il Verdicchio di Matelica sul mercato e candidarsi a destinazione turistica.
Sguardi d’intesa e complicità comunque non basterebbero senza il ruolo svolto dalla cantina più grande, la cooperativa Belisario che da sola rappresenta più della metà della produzione complessiva, che con il presidente Antonio Centocanti ha costruito un solido equilibrio grazie al quale da queste parti, ad esempio, non esiste invenduto.
I produttori parlano una lingua sola, quella dell’ospitalità e della qualità della produzione: le referenze delle aziende Fattoria La Monacesca, Cantina Belisario, Tenuta Grimaldi, Villa Collepere, Piano di Rustano, Tenuta Colpaola, Gagliardi, Marco Gatti, Provima, Società agricola Bisci, Borgo Paglianetto, Casa Lucciola e Le Stroppigliose, assaggiate durante “I magnifici 16”, l’evento promosso dal consorzio – che qui si chiama Istituto – marchigiano di tutela vini (Imt), non conoscono sbavature, hanno tutti profili interessanti, grande sensibilità al biologico, e tranne qualche sperimentazione (come l’anfora di Umberto Gagliardi, vulcanico presidente dell’associazione dei produttori) e alcuni casi isolati in cui utilizzano il legno, preferiscono le certezze di acciaio e cemento.
A giudicare dalle evoluzioni non c’è alcuna fretta di bere il Verdicchio di Matelica – Doc dal 1967 e Riserva Docg dal 2010 – per il quale il tempo sembra una variabile indipendente. Grande longevità che emerge in più di un assaggio, a partire dall’annata 2013 di Gagliardi e di Tenuta Colpaola, l’azienda più alta a 650 metri di quota nella frazione di Braccano, piccolo borgo dove una serie di murales sono diventati attrattori di turismo.
Lamentano il fatto che venga venduto ancora a prezzi bassi, eppure i produttori sembrano consapevoli del valore del loro vino che non scende mai sotto i 9-10 euro. Molti hanno adottato il tappo a vite – o stelvin, come alcuni preferiscono chiamarlo – capace non solo di conservare persino più a lungo i bianchi, ma di scongiurare le insidie che troppo spesso si celano dietro al sughero che, soprattutto in produzioni molto limitate come queste, possono rivelarsi fatali.
D’altra parte, escluse Belisario e Provima – l’unica altra cooperativa, la cantina più antica di Matelica nata nel 1932 – che superano il milione, le altre aziende producono poche decine di migliaia di bottiglie ciascuna da vigneti che si trovano tra i 380 e i 650 metri di quota in cui la forma di allevamento più diffusa è il guyot doppio che negli anni ha preso il posto del doppio capovolto, e con basse rese per ettaro.
Piccole realtà ma dotate di grande energia: è la consapevolezza, profonda, delle potenzialità che questo territorio incontaminato e di particolare bellezza ambientale custodisce a dare linfa ad una nuova generazione di vignaioli che, finita l’era delle fabbriche – siamo nella patria di Enrico Mattei e dell’industria della carta – che ha arricchito la comunità ma impoverito la campagna, sta riscoprendo il piacere della terra.
Con Matelica, meno di diecimila abitanti al centro della valle, a fare da cuore nevralgico: è qui che da qualche anno i produttori nel foyer del teatro comunale hanno aperto un’enoteca che serve solo i loro vini – quasi cento referenze di Verdicchio – dando la possibilità a chiunque di assaggiarli tutti in un luogo solo, ed è alla città che il vino sarà completamente dedicato dalla vendemmia 2024, quando dopo la modifica del disciplinare in etichetta si troverà scritto Matelica Doc e solo dopo Verdicchio.
Per riannodare il discorso tornano utili le parole di Potentini, capace di catturare: “Il 43esimo parallelo è quello in cui c’è il clima agroalimentare per eccellenza, perché c’è il sole che matura molto ma non brucia, che ha un’inclinazione tale da stimolare tanto le piante ma non arriva mai all’allessamento. Sicché d’inverno alla vite sembra di stare in Trentino, ma quando arriva la fioritura ha a disposizione il sole del 43esimo e non quello del 47esimo o 48esimo, quindi pochi grappoli perché il freddo riduce la differenziazione a frutto delle gemme, ma grazie a un’insolazione perfetta la maturazione è poi bellissima”.
“Le nostre aziende”, ha detto il presidente Imt, Michele Bernetti, “sono da sempre molto attive sul fronte della promozione all’estero grazie a vini di punta – Verdicchio in primis – che hanno contribuito in modo decisivo alla crescita in valore delle esportazioni regionali, con un +33% negli ultimi 5 anni e un controvalore di quasi 76 milioni di euro. Ma il mercato nazionale rimane senz’altro strategico, ancora di più oggi con il boom turistico che si registra nel Belpaese così come nelle coste, nelle città e nei borghi marchigiani”.
L’area tutelata dall’Istituto marchigiano di tutela vini si estende su un vigneto tra le province di Ancona, Macerata e Pesaro-Urbino di oltre 7.500 ettari e una produzione che nel 2022 ha sfiorato i 230 mila ettolitri imbottigliati (l’89% del totale). I filari marchigiani sono tra i più sostenibili in Italia, con un’incidenza biologica sul vigneto che ha raggiunto il 39,5% delle superfici, pari a 6.991 ettari su un totale vitato di 18.000 ettari (anno 2022/23, fonte: Regione Marche, Assessorato all’Agricoltura), un’incidenza doppia rispetto alla media italiana. Dal 2010 al 2022 il totale degli investimenti messi in campo dal maxi-Consorzio e dalle aziende socie con i contributi comunitari (Ocm-Vino e Psr Marche Mis. 1.33 e 3.2) ha superato quota 28 milioni di euro.
Sono 16 le Dop tutelate da Imt: Bianchello del Metauro, Colli Maceratesi, Colli Pesaresi, Esino, I Terreni di San Severino, Lacrima di Morro d’Alba, Pergola, Rosso Conero (Doc e Docg), San Ginesio, Serrapetrona e Vernaccia di Serrapetrona, Verdicchio dei Castelli di Jesi (Doc e Docg), Verdicchio di Matelica (Doc e Docg).
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Roberto Potentini
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