Enogastronomia 08 Ago 2020 18:58

“PINTA E BASTA!”, VIAGGIO TRA LE BIRRERIE (E LE BIRRE) AQUILANE: ANBRA

“PINTA E BASTA!”, VIAGGIO TRA LE BIRRERIE (E LE BIRRE) AQUILANE: ANBRA
Foto Francesca Tarantino

Secondo appuntamento su Virtù Quotidiane per la rubrica “Pinta e basta!”, il viaggio soggettivo e ironico di Roberto Capezzali, ingegnere e appassionato del mondo brassicolo, alla scoperta delle birrerie (e delle birre) più ricercate dell’Aquila. Buona lettura!

L’AQUILA – Luca Marcotullio, 38 anni, patron e mastro birraio di Anbra, ha il physique du rôle di un personaggio del Grande Romanzo Americano e una di quelle facce che ti parlano di concretezza e sogni allo stesso momento. E la storia che ci racconta, in questo pomeriggio passato all’interno del suo birrificio, sembra scritta apposta per un personaggio così. Una trama in cui caso, passione e perseveranza si fondono e si intrecciano fino a rendere indistinguibile dove termini uno e cominci un altro.

Per un analista di marketing quella di Anbra, acronimo di ANonima BRasseria Aquilana, sarebbe una perfetta “success story”, di quelle da mettere sui manuali, ma basta seguire Luca tra i meandri della sua creatura, mentre ci apre celle frigo, ci propone assaggi e ci racconta dettagli per capire che qui il successo si è realizzato a un livello molto più elevato della semplice realizzazione economica: qui il sogno di un appassionato si è concretizzato diventando vita vera.

Luca entra in contatto con la Birra con la B maiuscola da ragazzo, forse la Pilsner di Urquell è la prima che gli lascia una forte impressione, avviandolo alla strada delle basse fermentazioni destinata a segnare in futuro il suo cammino professionale. Poi, come molti appassionati di birra, arriva l’innamoramento per il Belgio e le Trappiste. Luca diventa homebrewer, che nella lingua di Dante vuol dire uno che si fa la birra in casa, e intanto si incammina professionalmente su tutt’altra china, lavorando nel campo della ginnastica dolce per gli anziani.

Ma il fato che tutto governa decide di calare il carico di briscola: nel 2009 il terremoto colpisce L’Aquila e stravolge le prospettive lavorative di Luca. Che però dimostra di non essere tipo che si abbatte facilmente e coglie al volo l’opportunità di uno dei vari bandi che al tempo piovono sul territorio aquilano.

A Fossa (L’Aquila), ai margini orientali del comprensorio del capoluogo abruzzese, rileva un capannone, ex stalla, ex falegnameria ed ex deposito della Protezione Civile, e lo trasforma in birrificio. E subito ha l’intuizione fondamentale, che è probabilmente quella che garantisce il futuro della neonata Anbra: l’apertura in centro all’Aquila di una taproom (un pub, per capirci), che permette l’immediata diffusione del brand in città e la creazione di uno zoccolo duro di clienti.

E se in sala cotte Luca fa da solo, con Andrea Giorgi che lo aiuta nella gestione dello stabilimento di Fossa, il pub di piazza Chiarino all’Aquila è animato da uno staff numeroso (attualmente Marco Mascioni, Alessio Tramontelli, Antonella Digonzelli, Alessandro Alfonsetti, Silvia Scimia e Michela Bellini) mentre Eliana Di Giovanni segue i social, su cui il marchio Anbra fa un ottimo lavoro.

Da vero sognatore con i piedi per terra e un occhio verso l’orizzonte, il nostro mastro birraio mette in piedi negli anni un’offerta intelligente che se da un lato sa rivolgersi al vero appassionato dall’altro riesce a catturare anche il bevitore occasionale, magari (si spera) per convertirlo al mondo delle “craft beers”: sono ben sedici le etichette attualmente messe in campo, con alcune iniziative veramente notevoli come le tre birre gluten free (che aprono prospettive su un mercato che va acquistando sempre più importanza). Andiamo a vederne qualcuna.

La Lager e la Pilsner sono le ammiraglie, quelle destinate al pubblico più ampio e sempre presenti in fermentatore e nella taproom. La Pilsner, in particolare, è lineare e solida come il basso di Roger Waters in Another brick in the wall, un ottimo esemplare della specie. La nuova entrata è la Milknight, una scelta ardita ma azzeccatissima, una milk stout di un nero impenetrabile con i tratti tipici delle scure britanniche (tostato presente ma non eccessivo in equilibrio con caffè e cioccolato più tutta una serie di sentori secondari a corredo) ma caratterizzata da un’aggiunta di lattosio, zucchero non fermentabile che quindi il lievito non converte in alcol, che dona una appena accennata nota dolce ma soprattutto una morbidezza in bocca che ricorda la sensazione del cappuccino. Da provare.

E poi per gli amanti del luppolo ci sono la Indian (IPA) e la American (APA), mentre gli appassionati delle basse fermentazioni (vera specialità di Luca, e non a caso Anbra è uno dei pochi microbirrifici a cimentarsi in così tante birre fermentate in bassa) ci sono anche la Special (Bock), la Diamond (Schwarzbier) che personalmente adoro, la Regal (Kellerbier) e la D’Oro Rosso (allo zafferano aquilano). E poi Weiss, Golden Ale e altro ancora, persino un Barleywine da dieci gradi e mezzo che non è proprio la tipologia più facile da trovare in giro e, dall’altro lato dello spettro alcolico, una light beer da soli 2.7 gradi.

Alla fine del nostro giro dello stabilimento di Fossa, ormai fortemente provato nel fisico ma saldissimo nel morale, chiedo a Luca cosa ci sarà nel prossimo futuro di Anbra. La verità è che devo togliermi il vizio di fare questa domanda, perché poi l’intervistato di turno mi risponde ma aggiunge (giustamente) “però non scriverlo” per evidenti ragioni di opportunità commerciale. Quindi io adesso lo so, ma non lo scrivo, e quindi mi rodo. Voi però tenete le antenne dritte e non ve ne pentirete.

E mentre io e Francesca ci rimettiamo in macchina alla volta dell’Aquila mi viene da pensare a che bella realtà è diventata oggi Anbra e a quanto sono belle le storie di questa gente di birra. Forse perché ogni storia che parla della volontà di realizzare qualcosa è bella in sé.

Può darsi…

Ma di sicuro, se ci aggiungi un po’ di luppolo, la storia viene meglio.
Con voi ci rivediamo per la prossima pinta.

Sláinte!

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“A me dammela ghiacciata”

La temperatura della birra è il problema gemello a quello della cottura della carne. Il maiale ha una certa cottura. L’agnello ne ha un’altra. La fiorentina più che una cottura ha una religione. Il carpaccio va mangiato crudo.

Ecco, per le temperature delle birre funziona più o meno uguale. Ogni birra ha una temperatura di servizio ideale, alla quale il suo bouquet olfattivo è in grado di aprire tutte le sue pieghe più recondite permettendoci l’esperienza sensoriale più completa e appagante. Dipende da diversi fattori: stile, gradazione, corpo, anche materie prime utilizzate.

Purtroppo i pubblicitari dei macro-produttori mondiali, che chiameremo BigBeer da questo momento in poi, ci hanno inculcato l’immagine mitica del falegname sudato con gli addominali a tartaruga e i jeans attillati che beve al collo da una bottiglia ghiacciata, ma la verità è che:

1) le macro-birre ghiacciate vanno benissimo perché non hanno sapore, ma una buona birra muore a temperature improprie, e inoltre

2) se il falegname sexy continua a bere dal collo della bottiglia senza permettere all’anidride carbonica di liberarsi la tartaruga si trasformerà a breve in uno Zeppelin e per togliere i jeans ci vorrà il chirurgo.

In sintesi: bevete le vostre birre alla temperatura consigliata o rischiate di friggere il vostro carpaccio.

Foto Francesca Tarantino


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