La cicerchia, il prezioso legume di Castelvecchio Calvisio da riscoprire

CASTELVECCHIO CALVISIO – Tra gli aridi e pietrosi terreni del Gran Sasso meridionale si sono conservati, grazie alle centenarie cure colturali dei contadini, numerosi biotipi di leguminose da granella che mantengono in vita le radici storiche e gastronomiche del territorio. Di queste antiche piante una ha trovato all’interno del Parco nazionale, e a Castelvecchio Calvisio (L’Aquila) in particolare, un habitat ideale per lo sviluppo di un ecotipo locale: la cicerchia.
Poco conosciuta rispetto ad altri legumi, anche per la sua difficile reperibilità sul mercato, la cicerchia di Castelvecchio ha semi di forma irregolare, simili a dei sassolini, dimensioni a metà tra il cece e la lenticchia e un colore che varia dal grigio al marrone chiaro.
La specie Latyrus Sativus, di cui fa parte la cicerchia di Castelvecchio, ha origini mediorientali, era utilizzata già nella preistoria, conosciuta dagli antichi Greci e dai Latini, che la chiamavano rispettivamente ‘Latyros’ e ‘Cicercula’, e durante il Rinascimento era parte della dieta dei ricchi. Per la sua resistenza in contesti con scarse risorse, in Italia la coltivazione è particolarmente diffusa nelle zone appenniniche e montane del centrosud dove, nei secoli, è diventata un alimento di largo consumo.
Inserita nei prodotti agroalimentari tradizionali (Pat), ha perso la sua importanza economica dopo gli anni cinquanta, con un conseguente calo nella coltivazione e da oltre quarant’anni non viene più riportata nelle statistiche ufficiali. Negli ultimi anni è coinvolta in un rinnovato interesse di mercato sull’onda del potenziamento delle tradizioni e delle colture antiche, basti pensare alla cicerchia di Serra de’ Conti (Ancona) riconosciuta dal Presidio Slow Food.
Anche in Abruzzo, con l’abbandono delle campagne, in particolare quelle della zona di produzione tipica che ricade nel distretto delle Terre della Baronia, la cicerchia è a rischio scomparsa, nonostante l’impegno per valorizzarla.
“Nella sua patria originaria nessuna azienda agricola coltiva più la cicerchia, anche perché Castelvecchio è un paese di pochi abitanti – spiega a Virtù Quotidiane l’agronomo Marco Manilla -. Il calo di produzione è stato netto negli ultimi anni e sta portando all’abbandono di molte colture antiche. I produttori sono man mano diminuiti e ci sono pochi giovani che si dedicano all’agricoltura: basti pensare che fino a 10-15 anni fa c’erano tre produttori di cicerchie a Castelvecchio, mentre negli anni ’50-’60 le coltivavano almeno sessanta famiglie”.
“Rispetto ad altre leguminose, la cicerchia è stata sempre quella meno coltivata – aggiunge Manilla –. C’è sempre stata una degradazione di questo legume che, seppure in passato ha contribuito a combattere la fame con la preparazione di piatti poveri della tradizione, è stato spesso utilizzato insieme alla veccia per l’alimentazione animale, forse perché da un punto di vista organolettico è meno pregiata, con un sapore meno riconoscibile rispetto ad altri legumi, ma comunque buono e gustoso”.
La limitata diffusione e il sempre minore utilizzo della cicerchia vanno ricercati anche nella presenza di un alcaloide rilevato nei suoi semi, la neurotossina Odap, che con un consumo prolungato e abbondante del legume, come avveniva in tempi di carestia, è responsabile del latirismo, una sindrome del sistema nervoso che porta convulsioni e paralisi.
Studi scientifici hanno scoperto che il pericolo di tossicità della cicerchia è molto basso e ogni rischio può essere eliminato con un prolungato ammollo del seme in acqua e sale o con la cottura, anche se alcuni ne consigliano ugualmente un consumo moderato e discontinuo sia nell’alimentazione umana che zootecnia.
Da sempre coltivato per il suo alto valore nutritivo, in quanto ricco di calcio e fosforo e di oligoelementi, è anche un legume che richiede una notevole mole di lavoro manuale con una scarsa resa produttiva, risultando una coltivazione faticosa e poco redditizia anche per le frequenti incursioni di animali selvatici. Questi fattori hanno portato ad un incremento dei costi che, sommati alla crescente industrializzazione, hanno determinato il progressivo abbandono della coltura rendendola un prodotto di nicchia, sopravvissuto in poche e piccole coltivazioni.
“I legumi delle nostre montagne sono una super nicchia ecologica, varietà che si sono selezionate nei secoli grazie ai contadini, i quali hanno continuato a coltivare questi prodotti perché molto rustici – prosegue Manilla –. Grazie a questa rusticità, le cicerchie hanno brillantemente superato, nei secoli, l’adattamento ad una coltivazione in alta montagna. Da un punto di vista strettamente agronomico è una pianta annuale con un ciclo biologico breve: nella zona di Castelvecchio Calvisio viene generalmente seminata ad aprile e raccolta ad agosto. È una coltura frugale, povera, che ha bisogno di bassi input energetici: non vuole troppa acqua e ad irrigarla sono sufficienti le piogge primaverili, che in montagna ci sono fino ad aprile-maggio. Riesce a sopravvivere a estati secche e, soprattutto, non ha bisogno di terreni troppo ricchi, ma nasce e cresce molto bene in terreni scheletri, quindi con sassi, ben drenati e poco concimati. Le cicerchie non vengono concimate quasi mai essendo piante che, come tutte le leguminose, fissano azoto dall’atmosfera, caratteristica questa che le rende anche una coltura perfetta per la rotazione dei terreni. Parlando invece degli aspetti nutraceutici la cicerchia, come gli altri legumi, è importantissima per una dieta sana e naturale e le sue qualità nutrizionali sono simili a quelle del fagiolo, della lenticchia o del cece e in abbinamento alla pasta fornisce un completo corredo degli aminoacidi essenziali”.
“È una coltura naturale, di elevata qualità organolettica e di specificità biochimica ed analitica, sostenibile anche dal punto di vista ambientale. Potrebbe trovare un grande spazio nella coltivazione perché, per la sua facilità ad essere coltivata in biologico, si presta bene ad integrare il reddito delle piccole aziende agricole di montagna”, rileva Manilla.
Attualmente tra i pochissimi produttori dell’ecotipo aquilano, c’è Marco Matergia, titolare di un’azienda agraria a Barisciano (L’Aquila) che, seppur in quantità limitate, ne prosegue la coltivazione.
“È un prodotto particolare che molti non conoscono e che ormai quasi nessuno coltiva più – dichiara Matergia -. Noi continuiamo a farlo per tradizione e siamo anche tra i custodi degli antichi semi. Nella nostra azienda abbiamo una produzione piccola, con certificazione biologica, che si aggira intorno ai 5-6 quintali, perché c’è poca richiesta: è un legume poco usato e la vendita viene fatta prevalentemente in ambito turistico”.
Con legittimo orgoglio, fino al terremoto del 2009 e, dopo una breve interruzione fino al 2017, la comunità di Castelvecchio Calvisio dedicava alla cicerchia una sagra gastronomica, una grande festa a cui partecipava l’intera popolazione.
Nella seconda domenica di agosto, il centro del borgo fortificato, con impianto architettonico ovoidale e suggestivi vicoli con archi e ripide scale esterne, si riempiva di persone e turisti pronti a degustare le antiche ricette a base di prodotti locali e naturalmente la cicerchia, cucinata nei modi più vari.
“Abbiamo fatto più di quaranta sagre bellissime in mezzo ai vicoletti del nostro borgo che addobbavamo con ginestre e conche in rame, e i ragazzi partecipavano con il nostro costume tipico – ricorda Luigina Antonacci, sindaco di Castelvecchio Calvisio -. La sagra della cicerchia è sempre stata un momento fortemente aggregativo e di condivisione, che mirava a riportare alla memoria sapori e gesti antichi e richiamava centinaia di persone. Purtroppo con il terremoto, lo spopolamento e l’invecchiamento delle persone che ci lavoravano è sempre più difficile organizzare eventi come questo, ma mi sto impegnando per riportare in paese la sagra e farla dove si è sempre svolta, nei vicoli storici dove è iniziato tutto, anche se questo momento è più difficile a causa dei lavori di ricostruzione in atto. Ma non voglio arrendermi, è una tradizione che merita di avere continuità, nonostante le difficoltà”.
In ambito culinario le cicerchie sono molto ricercate nell’alta gastronomia locale per la creazione di piatti della cosiddetta cucina povera, contadina.
La mancanza di acqua conferisce alla cicerchia un sapore farinoso e gradevole che da sempre la porta ed essere usata nelle zuppe e nelle minestre. Viene servita come contorno, insieme ad altri legumi, in purea, e si presta ad accompagnare carne, salsicce o cotechino. Con la preziosa farina ottenuta dalla macinazione dei semi, invece, è possibile preparare maltagliati, pappardelle e polenta oppure prodotti da forno con alti valori proteici.
Nonostante la riscoperta di questa eccellenza del territorio, molti sono i passi da fare per favorire maggiore sviluppo, diffusione e valorizzazione della cicerchia e, in special modo, per il biotipo di Castelvecchio Calvisio. Tra i possibili percorsi da intraprendere “sarebbe importante istituire una Dop coinvolgendo produttori e enti per riuscire ad ottenerla”, ipotizza Matergia.
“Qualche anno fa, insieme ad altri quattro comuni italiani in cui si coltiva la cicerchia, abbiamo partecipato al concorso ‘Cicerchie d’Italia-Le radici del futuro’ – racconta Antonacci -. Il nostro progetto, che aveva come scopo principale la riscoperta di antiche usanze dimenticate per consegnarle alle nuove generazioni, dare nuovi sviluppi a colture e tradizioni del nostro territorio, anche attraverso le cooperazioni con altri comuni produttori, ci ha permesso di vincere il primo premio che abbiamo ritirato in Senato. Ma per attuare questo progetto è innanzitutto necessario che la cicerchia venga prodotta. Da anni stiamo sensibilizzando i cittadini a riprendere la produzione e per dare un segnale, e poter finalmente a valorizzare questo prodotto come merita, sto pensando di fare io una piccola coltivazione di cicerchia”.
“È un grande rammarico per me, che sono nata e cresciuta a Castelvecchio, sapere che in zona non la coltiva più nessuno e che le poche aziende che la producevano in paese hanno chiuso, nonostante la fertilità dei nostri terreni. È necessario molto impegno ma non bisogna abbandonare i progetti che permettono il potenziamento di risorse, tradizioni e prodotti del nostro territorio”, conclude il sindaco. Ilaria Micari
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