LA VIRTÙ DELLE VIRTÙ TERAMANE: RITUALE TIPICO DEL SISTEMA PRODUTTIVO AGRARIO PREMODERNO

di ERNESTO DI RENZO*
TERAMO – Poniamoci un quesito, per iniziare. Le Virtù, ossia la tradizionale ricetta gastronomica del 1° maggio abruzzese-teramano, possono essere pensate come un piatto dalle indiscusse (e contemporanee) prerogative di bontà gustativa e di virtuosità alimentare?
È evidente che, mentre riguardo la prima prerogativa è compito delle cuoche e dei cuochi il saperne assicurare l’esito, riguardo la seconda è invece compito degli antropologi quello di riuscire a esplicitarne il senso.
Ma cosa sono le Virtù e quali caratteristiche possiede questa tipicità della tavola contadina al punto tale da venire considerata un modello esemplare del mangiare etico?
In termini culinari le Virtù sono una minestra ‘maritata’ i cui ingredienti consistono in legumi e verdure di vario genere cui si aggiungono diverse qualità di pasta secca addizionate con ritagli di pancetta, guanciale, cotica, o semplice osso di prosciutto.
La proprietà peculiare di questo piatto, una proprietà che lo rende del tutto esclusivo in rapporto a qualunque altra tipologia di zuppa della gastronomia italiana, è che ogni singolo ingrediente viene cucinato secondo le procedure e le tempistiche che gli sono propri.
A cottura ultimata, quindi, tutto viene amalgamato e adeguatamente insaporito con una ricca base aromatica di finocchietto, sedano, salvia, alloro, cipolla, aglio, timo, maggiorana, origano, che ne completa la sapidità. Il risultato finale è quello di un preparato capace di garantire un’esperienza gastronomica polisensoriale dove il gusto si esprime in tutte le sue diverse forme percettive: di vista, di olfatto, di sapore, ma soprattutto di tatto palatale (texture).
In termini interpretativi più consoni a una lettura di tipo antropologico, invece, le Virtù rappresentano un cibo rituale tipico del sistema produttivo agrario premoderno il cui significato è da comprendersi in funzione di due particolarità che lo contraddistinguono: la tipologia dei suoi componenti e la collocazione calendariale.
Relativamente alla prima, più che significarsi per l’estrema varietà di ingredienti con cui le diverse consuetudini locali provvedono a confezionare e denominare la ricetta (Virtù nel teramano, Lessagne nel chietino, Totemaje nel sulmonese, Pignata nel sangritano), questo piatto si caratterizza per il suo essere l’espressione di una visione del mondo fuori dai canoni del consumismo capitalistico e delle sue conseguenziali logiche dell’usa e getta. Una visione dove lo spreco non ha spazi di significato, dove gli avanzi del pranzo diventano il cibo della cena e dove le pratiche del riuso (alimentare ma anche vestimentario, oggettuale, onomastico) si ispirano a modi di fare necessari, intelligenti, naturali, ‘virtuosi’. Anche laddove il riuso riguardi meri rimasugli di fagioli, ceci, farro, lenticchie, fave, cicerchie e grano che residuano all’interno di dispense in procinto di riempirsi di nuove provviste.
Relativamente alla seconda particolarità, la preparazione delle Virtù nella ricorrenza del 1° maggio (o nei giorni a esso adiacenti) più in là dal conferire alla ricetta il connotato del pasto ‘rituale’ da consumarsi con devozione e tradizionalità d’intenti, ne tradisce anche un’origine precristiana collegabile al ciclo delle stagioni, al vitalismo primaverile e alla propiziazione dei raccolti da perseguirsi mediante accorgimenti di tipo magico-rituale.
Ma le Virtù, oltre ad essere il cibo del riuso per eccellenza, oltre a essere un modo ossequioso di rapportarsi alla sacralità degli alimenti, oltre a essere una ricetta del folklore contadino al centro di un fiorente revival gastronomico, può rappresentare anche altro: ossia l’efficace vessillo (brand) di una regione che per i suoi connotati di autenticità culturale è in grado di candidarsi a meta di un turismo sostenibile capace di appagare le esigenze di viaggiatori sempre più desiderosi di coinvolgersi in esperienze totalizzanti con l’anima dei luoghi. Esperienze di cui i cibi, se sapientemente (ri)pensati e capacemente inseriti all’interno di una visione unitaria di promozione territoriale, possono rappresentare l’irresistibile e polisensoriale via di accesso.
* docente di Antropologia dell’alimentazione all’Università di Teramo
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