“La qualità del vino? È la piena partecipazione del produttore al suo sogno”. Parola a Vincenzo Mercurio, artista enologo cantinologo

CASTELLAMMARE DI STABIA – “Anche vivere alla falde del vulcano è terroir, influenza il modo di vivere delle persone. Si studia, si programma ma il fatalismo è parte di ogni nostro pensiero e azione”. Parlare con Vincenzo Mercurio, winemaker ed enologo consulente di diverse aziende in tutta Italia, premio Giacomo Tachis, fondatore di un’accademia unica nel suo genere dove si tengono corsi di cantinologia, padre di vini unici spesso figli di microterritori impervi e di vigne antiche, è parlare di spiritualità del vino, della sua potenza di fascinazione, dell’arte che regola la perfetta armonia della natura.
Una visione olistica che il professionista di origine stabiese, vissuto anche in Francia per completare la sua formazione e poi tornato a risiedere nei luoghi d’origine, pone alla base della sua sapienza tecnica e sensibilità empatica, la bussola che indirizza il suo lavoro quotidiano. Lo ha raccontato a Virtù Quotidiane nell’intervista che segue.
Dottor Mercurio, qual è la sua filosofia di lavoro?
La mia formazione nasce da due radici: una accademica, legata allo studio e ai libri universitari, e un’altra più profonda, che affonda le sue origini in un’etica personale, in un senso di connessione con la natura, con la religione, la filosofia, il senso di appartenenza. È una dimensione umana, a mio avviso fondamentale anche nel lavoro quotidiano. Il mio approccio nasce da un sentimento sincero verso la natura: fin da bambino sono stato affascinato dalla vita in tutte le sue forme – vegetali, animali, minerali. Ho sempre avuto una grande curiosità per ciò che è naturale, così come nutro una passione profonda per l’arte in tutte le sue espressioni: la musica, l’armonia, la bellezza. Faccio questa premessa perché, senza di essa, non si comprenderebbe il mio stile di lavoro: sostenibile, conservativo, poco interventista.
Come dire assecondare la natura?
Cerco sempre la leggerezza, quell’equilibrio misterioso che la natura riesce a generare, anche a partire da eventi estremi. Pensiamo, ad esempio, a un’eruzione vulcanica: un fenomeno dirompente, eppure capace, nei millenni successivi, di creare suoli fertili e generosi. È il caso di Roccamonfina, del Vesuvio, dei Campi Flegrei, dei Colli Albani… potrei continuare. Il mio metodo di lavoro si fonda sulla cura quotidiana dei dettagli — perché solo nella pratica quotidiana si possono davvero osservare e rispettare — e su una solida formazione culturale. Ho una forte passione per la Francia, per la Borgogna in particolare: una terra dove il terroir è valorizzato con rigore e rispetto. Dovunque io vada, cerco di capire il territorio: è sempre il territorio che mi guida e mi incuriosisce.
Cosa intende per terroir?
Per me il terroir è un insieme complesso e affascinante di variabili: è il magico equilibrio che si crea quando un determinato suolo, con il suo specifico clima, altitudine, latitudine, esposizione solare — e potremmo continuare — incontra un vitigno e la sensibilità dell’uomo che lo coltiva. Non è solo una somma di fattori naturali, ma una relazione dinamica tra natura e cultura, tra ambiente e intelligenza agricola. Quando tutto questo si armonizza, nasce un vino che parla davvero del luogo da cui proviene.
Una prospettiva umanistica applicata al vino?
È una domanda che mi sono posto spesso. Il mio percorso è iniziato con entusiasmo, a vele spiegate, con una prima laurea in Tecnologia Alimentare, seguita da quella in Enologia. Eppure, solo più avanti ho compreso davvero perché il vino mi affascinasse così profondamente.
Perché?
Nel vino ho ritrovato una sintesi perfetta: la spiritualità, l’armonia che regola la natura, la forza travolgente della bellezza. È un prodotto che va ben oltre la dimensione tecnica o alimentare: è cultura, simbolo, relazione. Durante gli anni universitari coltivavo molte passioni — l’arte, il teatro, la musica — che mi hanno accompagnato anche come mezzi per mantenermi agli studi. Ero diviso tra la voglia di suonare e la ricerca in laboratorio, sotto la luce fredda al neon, che pur interessante, faticava a darmi ispirazione. Poi è arrivato l’incontro, o forse il ritorno, al mondo del vino. Un mondo che non è solo importante dal punto di vista tecnico o economico, ma profondamente affascinante. Nessun altro prodotto della terra è capace come il vino di mobilitare le emozioni, di radunare le persone, di generare riti collettivi attorno a un gesto tanto semplice quanto significativo: la degustazione. Ecco perché sento il bisogno di applicare al vino una prospettiva umanistica. Perché è l’unico modo per raccontarlo nella sua totalità, come espressione viva della natura, della cultura e dell’uomo.
Ha inventato la “cantinologia”. Di che cosa si tratta?
La cantinologia è la logica del lavoro in cantina — un neologismo che ho coniato nel 2014 con l’obiettivo di formare i professionisti di domani e di affinare le competenze di chi già opera nel settore. L’idea è di fornire un contributo prezioso e indispensabile all’intera filiera vitivinicola. I nostri corsi ripartono a fine vendemmia, quando si analizzano con attenzione gli errori, o come li chiamo io, le “perturbazioni olfattive”: quei difetti che compromettono la bellezza del vino, fatto di territorio, odori e sapori autentici.
Quali altre materie si studiano?
Il percorso formativo comprende anche moduli dedicati al marketing e all’inglese del vino, perché la comunicazione è parte integrante del mestiere. Parliamo inoltre di sostenibilità, un tema ormai imprescindibile. Discutiamo la scelta dei materiali che affidano il nostro vino alla sua evoluzione: botti, anfore, serbatoi in acciaio, vasche di cemento, vetro, fino ai tappi, che rappresentano il vero sigillo di vita per il vino.
Nei suoi corsi racconta anche dei progetti e dei sogni condivisi con i produttori nella creazione dei loro grandi vini.
Non conosco altro modo di lavorare. Se manca l’empatia, preferisco rinunciare anche a incarichi importanti — e non lo dico con leggerezza, considerando che ho un’azienda e dei dipendenti da sostenere. Ma se non c’è una condivisione profonda, se non percepisco il desiderio di parlare un linguaggio comune o almeno di volerlo imparare non può nascere quella complicità necessaria a portare avanti un progetto che abbia anima.
L’empatia è capacità di connessione, uno strumento di comunicazione anche professionale.
Sono una persona che si immedesima molto. Mi piace mettere insieme tutti i tasselli per costruire un disegno coerente, autentico. Per me, il vino è proprio questo: un disegno che nasce da un foglio bianco, su cui ognuno produttore, consulente, territorio mette i propri colori, le emozioni, la propria storia. È un richiamo profondo a sentimenti ancestrali, che abitano l’anima di ciascuno di noi e che affiorano nei momenti più significativi della vita. Parliamo di frequenze, colori, vibrazioni interiori. E ognuno, nel vino, cerca quelle che risuonano con la propria. Come quando ascoltiamo un brano musicale e sentiamo un brivido percorrerci la schiena: quella è sintonia. E nel vino, accade la stessa magia.
Quali sono i progetti che più la attraggono?
Sono quelli in cui c’è una partecipazione ideale totale, dove l’impegno quotidiano e il progetto del vino si fondono in un’unica esperienza. Progetti nei quali il vino non è solo prodotto, ma un pensiero vivido e intenso, che accompagna ogni momento della giornata. Sono quei progetti che mi fanno ricevere messaggi nei momenti più impensati, carichi di gioia, ansia e trepidazione, perché rappresentano la realizzazione di un sogno.
Quanto conta il luogo nei suoi progetti enologici?
Il luogo geografico, per me, è prima di tutto un luogo che ci accoglie. Come esseri umani siamo un po’ naufraghi in questo mare vasto: raramente siamo davvero figli di un solo posto, e spesso viviamo i luoghi in modo temporaneo o casuale. Ma quando si parla il linguaggio universale del vino, il luogo può diventare qualcosa di più profondo. Non solo un fattore tecnico o geografico, ma un simbolo, una narrazione. Parlo, ovviamente, di quei vini capaci di emozionare. Non mi riferisco ai progetti industriali o agli investimenti pianificati con studi di zonazione, ma a quelle situazioni in cui una vigna diventa l’estensione di una storia familiare. Magari non si tratta del luogo più suggestivo al mondo, ma la forza delle persone, la loro dedizione, la memoria che vi è radicata… tutto questo può superare ogni ostacolo e generare qualcosa di unico. Sono progetti irripetibili, vini prodotti in edizioni limitate, che portano dentro di sé una storia autentica. E quella storia è parte integrante del vino stesso.
Ha un debole per la viticoltura di nicchia e i vini isolani?
Sì, decisamente. Le uve autoctone dimenticate, i vigneti estremi incastonati tra le pietre, i terrazzamenti che sembrano sfidare la gravità… sono questi i luoghi che mi affascinano. Terreni spesso difficili ma vocati, dove la viticoltura richiede fatica e passione, ma in cambio restituisce identità, carattere, anima. È lì che nascono i progetti che amo di più. Mi ha colpito profondamente l’energia di Ponza, un’isola di origine vulcanica pervasa da una magia unica. Ho la fortuna, soprattutto durante l’inverno, di fare passeggiate un po’ più estreme sul Monte Guardia, da dove si può guardare l’orizzonte e lasciarsi andare a riflessioni profonde. È un luogo magico, capace di generare vini vibranti, sapidi e minerali, che raccontano la forza della terra e del mare. Lo stesso vale per Ventotene, un’isola fortemente plasmata dall’antica attività vulcanica e avvolta dal fascino del Mediterraneo. Qui, come racconta bene Luigi Sportiello nel progetto enologico di Candidaterra si vive il ritorno alla vigna, un sogno che affonda le radici nella storia dei padri e nel rispetto di un territorio unico e difficile. Queste sono viticolture eroiche, di nicchia, che sfidano la natura e i suoi limiti, raccontando storie di passione, fatica e legame profondo con la terra. È in questi luoghi che la vite e il vino diventano espressioni autentiche di un’identità rara e preziosa.
Come si conciliano viticoltura sostenibile e cambiamento climatico?
Stiamo soffrendo. L’agricoltura, in generale, è sottoposta a una prova di resistenza durissima. Eravamo abituati a coltivare seguendo ritmi stagionali relativamente costanti e prevedibili: freddo, caldo, pioggia e sole si alternavano in un ciclo che, pur con variazioni, si ripeteva con una certa regolarità. Negli ultimi anni, quel ciclo è saltato. Siamo alla mercé di cambiamenti improvvisi, di eventi estremi e sempre meno controllabili. È come se l’equilibrio si fosse spezzato, e ora siamo costretti a reinventare il nostro rapporto con la natura.
Con quali modalità?
Non esiste una ricetta unica per affrontare tutto questo, ma esiste un metodo: osservare con attenzione. Osservare le piante, vedere come reagiscono, capire cosa ci stanno comunicando. Le piante hanno una capacità di adattamento che spesso sottovalutiamo. Sono molto più antiche di noi, e in milioni di anni hanno imparato a risolvere i problemi restando radicate, senza potersi spostare. Noi, al contrario, siamo esseri mobili: il nostro istinto ci porta a cercare soluzioni muovendoci — all’ombra se c’è caldo, accendendo un fuoco se c’è freddo, migrando, cambiando. Ma le piante no: restano lì, e attraverso la biosintesi, attivano risposte complesse e spesso geniali. Sono circondate da una rete invisibile di microrganismi, batteri, funghi: un vero e proprio ecosistema che le sostiene, dalle radici alle foglie. Il problema è quando l’uomo interrompe questo equilibrio con incendi, disboscamenti, o pratiche agricole invasive. In un clima in crisi, il nostro compito non è solo intervenire, ma prima di tutto comprendere. Le piante ci stanno già indicando delle strade: dobbiamo imparare a leggerle.
E quindi cosa pensa della tendenza a spostare i vigneti in quota?
È un’idea interessante, ma non può essere la soluzione unica. Pensiamo spesso che salendo in altitudine risolveremo i problemi legati allo stress termico. Ma magari quelle stesse viti, a quote più basse, stanno già attivando meccanismi biologici di difesa, adattandosi al nuovo contesto. La vera sfida è capire e accompagnare questi processi. Dobbiamo imparare a lavorare meglio con la pianta: gestire con maggiore attenzione la chioma, preservare e migliorare il suolo, rivedere i tempi e i modi della coltivazione. Spostare un vigneto può essere una scelta valida in certi casi, ma non possiamo pensare, ad esempio, di portare il Brunello di Montalcino sulla cima dell’Amiata. Montalcino è Montalcino, è il suo territorio a renderlo unico. La soluzione non è scappare, ma imparare a restare e adattarsi. Non possiamo coltivare come dieci anni fa e poi lamentarci se la qualità non è più la stessa. Serve consapevolezza, osservazione, rispetto. E un’agricoltura più intelligente.
Si rischia di perdere l’identità del vitigno e del terroir?
È possibile, non cambierebbe solo l’altitudine ma la geologia e la pedologia del terreno Come detto, il terroir è un equilibrio che si crea in un luogo. Se per una variabile, il clima che cambia repentinamente, l’uomo non interviene interpretando il cambiamento con piccole azioni, si rischia di perdere l’immagine sensoriale del vino, l’identità di quel terroir. È la cosa peggiore che possa capitare. Immaginiamo che tra i problemi ci sia la scottatura delle uve e la produzione di aromi che ricordano la frutta cotta, frutta candita, fichi secchi. Così rischieremo di avere lo stesso odore in vini provenienti da zone diverse realizzati con vitigni diversi, una banalizzazione. È importante conoscere, studiare, osservare e comprendere la natura.
Dunque l’altitudine non è la soluzione.
No, infatti. Grazie a un’azienda calabrese, Tenute Madeo che ha terreni a 1300metri, vigneti tra i più alti d’Europa, stiamo sperimentando per dare un contributo, ma non è pensabile di generalizzare la pratica di spostarsi in quota, sarebbe un disastro ambientale.
Il vino sta attraversando una crisi di trasformazione profonda e globale. Qual è il suo pensiero?
È un momento estremamente delicato. C’è una forte tensione sui numeri e dovremmo riflettere con attenzione sia sulla quantità che sulla qualità dell’offerta, così come sulla qualità — e non solo quantità — del consumo.Ogni anno mi dedico alla formazione attraverso la mia academy e collaborando con diverse organizzazioni, e ciò che osservo è che migliaia di persone, nel tempo, hanno affinato le proprie capacità di valutazione. Eppure si continua a ripetere che i giovani non bevono vino. La verità, invece, è un po’ diversa: non è che i giovani — e spesso anche gli adulti — non bevano vino, è che non bevono vino di qualità. E questo non per mancanza di interesse, ma perché stanno cambiando le aspettative del mercato.
Si beve meno anche per la povertà dilagante.
Oggi ci scontriamo con problematiche molto concrete: l’aumento dei costi di produzione, l’inflazione, la riduzione del potere d’acquisto. Tutto questo incide sul prezzo finale del vino e sulla sua accessibilità, ma anche sulla percezione del suo valore. Non ho una soluzione semplice, nessuno ce l’ha. Ma credo che occorra recuperare ascolto. Ascoltare la natura, che ci parla attraverso i segnali della vigna, ma anche ascoltare il consumatore. Non possiamo continuare a considerarlo come un contenitore da riempire o un target da conquistare a ogni costo, va rispettato. È un lavoro di filiera, e in particolare riguarda chi ha la responsabilità finale della definizione dei prezzi e della comunicazione del valore. Solo recuperando coerenza e autenticità si può tornare a costruire un legame solido tra vino e persone.
Che importanza hanno i vini spumanti nel suo lavoro?
Un’importanza sicuramente crescente. Fino a dieci anni fa, le aziende con cui progettavamo spumanti si potevano contare sulle dita di una mano. Oggi, invece, sono sempre di più le realtà vitivinicole orientate a produrre anche uno o più spumanti, e questo ha portato a un rinnovato interesse verso vitigni autoctoni e antichi. Mi viene in mente, ad esempio, il Coda di Pecora casertano dell’azienda Il Verro: un vitigno recentemente riconosciuto tra quelli ufficialmente iscritti al registro dei vitigni campani da vino. Da esso nasce uno spumante davvero particolare, con profumi di ginestra e fiori gialli, una spiccata sapidità e una verticalità notevole. È un progetto in edizione limitatissima, che ci ha permesso di riscoprire le potenzialità spumantistiche di un’uva antica, mai valorizzata in questa direzione. Detto questo, personalmente non sono un grande consumatore abituale di bollicine: il mio gusto tende a orientarsi maggiormente verso i vini fermi, che continuano ad affascinarmi per la loro profondità e capacità espressiva. Ma dal punto di vista professionale, il mondo degli spumanti rappresenta oggi un ambito di ricerca dinamico, pieno di sfide e di possibilità.
Nuove alternative al vino, cosa ne pensa?
Credo che, quando si parla di bevande analcoliche, la frutta offra moltissime alternative valide. Ci sono infinite possibilità per creare succhi, centrifugati, infusi naturali. Ma se parliamo di vino senza alcol, devo essere onesto: quelli che ho assaggiato finora li ho trovati sgradevoli, privi di anima. Temo che si stia andando verso una deriva pericolosa: quella del vino dealcolato, dove il frutto lascia il posto agli aromi aggiunti, e ciò che si ottiene ha ben poco a che fare con il vino. Eppure, nella confusione generale, c’è il rischio che questi prodotti vengano comunque chiamati “vino”. Una strada, a mio avviso, senza uscita, soprattutto se si perde il legame con la materia prima e con la tradizione enologica. Se voglio qualcosa di analcolico, bevo volentieri una centrifuga naturale o semplicemente acqua e limone — un rimedio semplice, sano, idratante, e ricco di vitamine. Ma il vino è un’altra cosa: è cultura, fermentazione, territorio. E credo che vada rispettato per quello che è, senza compromessi artificiali.
Il suo auspicio per il futuro?
Mi auguro di continuare a scoprire luoghi carichi di energia e significato, e di incontrare persone autentiche, con cui condividere emozioni e visioni. Spero di lavorare fianco a fianco con gente entusiasta, appassionata, sognatori concreti e consapevoli di fare il mestiere più bello del mondo.
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