ILARIA E PATRIZIO, ABRUZZESI FUORI SEDE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

L’AQUILA – Dresda, Chicago, Washington, Madrid, Berlino, Pechino. È incredibile quanti abruzzesi siano sparsi per il mondo in questo momento di pandemia globale.
Molti di loro, almeno chi poteva, hanno deciso di tornare in Italia, chi autonomamente, chi grazie ai voli messi a disposizione dal Ministero degli Esteri italiano.
Ma c’è anche chi, e non è una parte trascurabile della popolazione, ha deciso di restare dove si trovava per lavoro, studio o perché la propria vita si svolge lì, lontano dalla madrepatria che in questi mesi di lockdown più o meno generalizzato, sembra sempre un rifugio più sicuro, fosse solo per la familiarità che richiamano.
Anche chi è rimasto in paesi che non sono quelli di origine, va ad aumentare numeri e statistiche e tra di essi ci sono tutti quegli italiani che negli ultimi anni, per scelta o per costrizione data dalla mancanza di sbocchi lavorati adeguati alle aspettative professionali di anni di studio, hanno voluto o dovuto lasciare l’Italia, spinti da quel modello di globalizzazione che nelle ultime settimane ha iniziato a cedere sotto il peso delle sue stesse colpe.
Se è vero che la pandemia, il restare chiusi in casa tornando a gustare il tempo che scorre senza dover più inseguire un mondo che corre, stanno insegnando a trovare spazi di riflessione, anche verso la natura che ci circonda, allora bisogna fermarsi sui dettagli, sulle persone, sulle loro storie.
Ilaria Vaccarelli e Patrizio Del Pinto sono tra coloro che hanno deciso di restare all’estero, per non mettere in pericolo loro stessi a causa del viaggio di ritorno e soprattutto per non esporre ad eventuali rischi i loro famigliari una volta tornati a casa.
Studentessa in Erasmus lei, nella calda e assolata Siviglia è arrivata ad inizio febbraio per un tirocinio di sei mesi in un centro di ricerca sulla microbiologia e gli ambienti sotterranei e non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi in una situazione del genere. Ingegnere informatico lui, lavora a Londra da diversi anni, tanti da poter chiedere la cittadinanza britannica. Entrambi aquilani, sono i rappresentanti di una generazione di giovani che non ha trovato in Italia quello che cercava, decidendo di partire.
Sono anche lo specchio di due paesi europei, anche se ormai solo dell’Europa geografica, che stanno affrontando la pandemia in due modi diversi e di due modi di pensare e sentire il virus accomunati da sogni, paure, aspettative per il futuro.
Virtù Quotidiane li raggiunge al telefono. “Per il lavoro sono fortunato”, spiega Patrizio, “perché facendo l’ingegnere informatico posso lavorare da casa, l’azienda mi aggiorna costantemente e ci supporta. Ci ha riferito che diversi colleghi hanno avuto il virus, due sono stati ricoverati perché più gravi”.
Circa un mese fa c’è stata una stretta da parte del governo britannico, poi il contagio del primo ministro Boris Jonson, del principe Carlo e un aumento generale della diffusione del virus hanno fatto temere per il Regno Unito.
“Il timore più grande per chi è rimasto qui”, prosegue Patrizio, “è che non sappiamo cosa succederà in caso di emergenza se dovessimo ammalarci, visto che qui il sistema sanitario è molto diverso dal nostro. All’inizio le consegne a domicilio per la spesa erano intasate per l’alto numero di persone che le richiedevano, ma rispetto a quello che mi raccontavano dall’Italia, sembrava che qui la gente non avesse capito la gravità della cosa. Per adesso è tutto fermo, io e la mia compagna avremmo dovuto cambiare casa ma anche gli spostamenti e i traslochi sono bloccati”.
La compagna di Patrizio è Rossella Benenati e anche lei racconta la sua attuale esperienza personale.
Tra un discorso e l’altro si lascia sfuggire due cose in particolare che danno la misura della difficoltà del momento per chi è lontano dalla propria casa e dalla propria famiglia d’origine. Una è quando racconta di aver avuto molta paura all’inizio, date le incertezze della situazione, e l’altra, detta quasi sommessamente, è che la tesi del master che sta preparando è sulla sua terra, la Sicilia, “perché mi manca molto”, dice.
E poi aggiunge che “forse sì, non è bello sentire il bollettino dei deceduti e dei contagiati ogni giorno come accade in Italia con la Protezione Civile, ma almeno sembra che voi siate messi a parte di quello che succede. Qui invece si vive senza sapere quasi nulla e non è bello brancolare nel buio”.
E infatti, come raccontano entrambi, almeno a Newbury, nel Berkshire, la cittadina dove vivono a 50 minuti ad ovest di Londra, non ci sono grosse restrizioni imposte dal governo, sono per lo più le aziende, i supermercati a dare le linee guida ai dipendenti e ai clienti. “Per il resto”, riprende la parola Patrizio, “si basano molto sul buon senso delle persone che comunque escono o vanno a correre”.
L’approccio di Ilaria a questa pandemia è molto idealista e anche per questo rilevante da ascoltare soprattutto in una situazione come quella spagnola, trasformatasi nell’arco di un mese in una catastrofe umana dato l’alto numero di chi non ce l’ha fatta.
Anche lei ha deciso di partire per trovare la propria strada lontana da casa e, pur studiando di scienza e di microbiologia, si lascia andare ai sogni. Quella con Ilaria da un’intervista si trasforma in un’introspezione.
“Noi studenti Erasmus veniamo da paesi differenti, con diverse condizioni economiche, con distinte situazioni pandemiche, sanità pubbliche e private, scelte economiche e socioculturali spesso antitetiche”, racconta.
“Ogni studente ha le proprie situazioni personali, legate a molti e variegati fattori, come la disponibilità economica, la condizione familiare, universitaria, la propria salute fisica e mentale. Ascoltando e conoscendo un buon numero di situazioni, mi sento fortunata. Non ho avvertito questa sensazione da subito, ma mettendo a fuoco la mia condizione rispetto a tante altre, ho compreso la fortuna che ho avuto nel poter scegliere”.
C’è una domanda che si pone idealmente Ilaria e che sicuramente invade le notti di molti in questo periodo, quella che riguarda il futuro e se sarà ancora possibile sognare passata la pandemia.
“Ogni volta che formulo questa domanda, dentro di me sento una sorta di paura del vuoto. Mi spaventa il futuro, anche solo quello più prossimo. Questa paura delle volte mi immobilizza, mi fa perdere la concentrazione nello studio, il focus dei miei obiettivi, le idee per i miei progetti futuri. Per fortuna però, il taccuino su cui appunto sogni e idee me li ricorda e mi spinge a non pensare a questo momento, mi sprona a vedere questo tempo come da guadagnare e non da perdere”.
Forse è proprio questo lo sprone che storie come queste possono offrire a tutti, “coltivare e predisporre tutti i mezzi”, come dice Ilaria, per restare nel qui e ora a progettare come costruire i propri sogni per renderli reali una volta che la pandemia sarà finita. Luisa Di Fabio
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