La guerra dei marchi nel mondo del vino. Intervista all’esperta: “Così le aziende dovrebbero difendersi”

BOLOGNA – C’è il color arancio della Veuve-Clicquot, soccombente nei confronti di Lidl, il vino bulgaro Bolgarè, che nulla ha potuto nei confronti di Bolgheri, oppure il Cannonau di Mamoiada della piccola azienda Muggittu rappresentato da una coppia di tori che la Redbull voleva che scomparissero. E poi le tantissime vertenze aperte dalle denominazioni della Valpolicella per difendersi dalle “imitazioni” estere con l’Amarone che risulta il vino più soundizzato.
Sono decine i casi di battaglie legali che ruotano attorno al marchio e alla sua tutela, che investono aziende più e meno note, autentici blasoni del settore vitivinicolo e microcantine che i colossi non sempre riescono a mettere con le spalle al muro.
Al di là dell’italian sounding – il fenomeno per il quale all’estero sfruttano nomi o grafiche che evocano l’italianità ingannando i consumatori sulla reale origine del prodotto – sui marchi e le loro immagini, nel settore enologico si sviluppa un enorme giro di interessi e contenziosi, che spesso si fermano molto prima di finire nelle aule di giustizia attraverso accordi di natura commerciale.
Determinante è il fattore spazio-temporale, cioè chi per primo ha fatto uso commerciale, e dove, di un determinato nome o segno in funzione di marchio sui propri prodotti. Ma nella difesa del brand non va trascurato un altro aspetto essenziale: non deve trattarsi di un marchio nullo, e possibilmente, neppure di un marchio scarsamente proteggibile.
All’avvocato Raffaella Bisceglia, che si occupa di tutela dei marchi nel settore vitivinicolo, Virtù Quotidiane ha chiesto di spiegare il meccanismo che si cela dietro a questi marchi e alla loro difesa.
“Chiunque si ponga per la prima volta il problema di registrare un marchio, ad esempio nel settore dei vini (ma stesso discorso può farsi per ogni altro settore), è convinto che la registrazione serva soltanto ad impedire un giorno che altri concorrenti possano ‘copiarlo’. Ma di solito, nella fase in cui quel marchio viene ideato o comunque scelto, ci si interroga solo su quale segno adoperare per vestire meglio i propri vini, se il nome e/o l’immagine scelta si addicano e rappresentino il più possibile il prodotto. Questo è un primo errore”, avverte l’esperta, “perché più il marchio ha attinenza concettuale con il prodotto che contraddistingue, più esso rischia di non ricevere in futuro alcuna protezione. I marchi che svolgono meglio la loro funzione, infatti, sono quelli che non c’entrano nulla con il bene o il servizio contrassegnato”.
Le valutazioni preliminari
“Prima di depositare domanda di registrazione”, aggiunge Bisceglia, “è molto importante distinguere se si tratta di un marchio già utilizzato in commercio, e se sì da quanto tempo e con quale estensione territoriale e quantitativa, o se viceversa esso non sia ancora mai stato usato. In quest’ultimo caso, siamo in tempo per fare delle verifiche preventive. Ad esempio, se vien fuori che potrebbe confliggere con un marchio già registrato da altri per quegli stessi prodotti (ad esempio, spumanti), o anche solo per prodotti affini cioè della stessa macrocategoria (ad esempio, bevande alcoliche), si potrebbe ancora decidere di cambiare marchio, nel dubbio, per non esporsi al rischio di contestazioni future. Se invece quel marchio lo hai già iniziato ad usare, magari da diversi anni, e scopri che qualcuno l’aveva registrato ancora prima (e chiaramente, verifichi anche che costui non sia stato così sciocco da farlo scadere e l’abbia sempre regolarmente rinnovato), in teoria sei già tecnicamente un contraffattore. Magari incolpevole, ma pur sempre contraffattore”.
“In quest’ultimo caso”, prosegue Bisceglia, “ci si trova di fronte al dubbio amletico: perdere anni di investimenti fatti fino ad allora per accreditare quel nome/segno sul mercato (senza contare la rinuncia ad eventuali scorte di magazzino, anche soltanto per quel che riguarda confezioni, bobine di etichette, capsule, cataloghi, brochure, etc.), oppure provare a depositarlo lo stesso, pur consapevoli che così facendo si potrebbero svegliare uno o più cani che dormono”.
Palesemente si tratta di una scelta difficile, da non prendere alla leggera, e che sicuramente non conviene fare da soli. In queste circostanze, la decisione di depositare la propria domanda di marchio non servirà tanto a comunicare formalmente al resto del mondo che si è scelto un determinato nome o “logo” per ottenere un’esclusiva commerciale su di esso (cioè, in concreto, il diritto di vietare a terzi di farne uso nello stesso settore), ma servirà piuttosto a sfidare i concorrenti a farsi avanti, qualora abbiano obiezioni da fare.
Una volta ricevuta la domanda di un nuovo marchio d’impresa, infatti, l’ufficio competente (quello nazionale se si tratta di domanda depositata solo in Italia, oppure quello europeo o internazionale, in caso di domande volte a coprire anche l’estero) per prima cosa esaminerà se essa è registrabile da un punto di vista formale (e sotto un paio di altri profili di “validità” intrinseca, tema su cui qui non occorre dilungarsi).
I funzionari dell’ufficio marchi, in particolare di quello italiano, non sono però istituzionalmente tenuti a sollevare questioni di novità rispetto a precedenti registrazioni altrui: quindi, in teoria, in fase di deposito può tecnicamente essere giudicata registrabile anche la domanda di un cittadino qualsiasi che chieda la registrazione a proprio nome del marchio Coca Cola per bevande gassate! Una volta esaminata e ritenuta registrabile la nuova domanda di marchio, l’ufficio provvede a pubblicarla sul Bollettino Ufficiale; e dal momento di quella pubblicazione, le legge concede a tutti i concorrenti un tempo limitato, di tre mesi, per opporsi formalmente alla registrazione di quel marchio con una procedura parecchio low-cost, chiamata procedura di opposizione amministrativa.
“Questa pubblicazione funziona un po’ come nei matrimoni”, aggiunge Bisceglia. “Quel passaggio in cui il parroco chiede alla platea: Se qualcuno ha qualcosa da dire, parli adesso o taccia per sempre. Ce l’hai presente, no? Beh, qui la faccenda non sta proprio del tutto così, ma ci andiamo abbastanza vicini: nel senso che, trascorsi i primi tre mesi senza opposizioni low-cost, l’Ufficio emetterà subito dopo un certificato di registrazione. Da quel momento, a chi si sia svegliato tardi, e ciò nonostante non voglia rinunciare ad azionare il proprio diritto anteriore per far invalidare il marchio del concorrente che ha registrato per secondo, toccherà ricorrere a procedure molto più lunghe, e molto ma molto più costose. E l’esperienza insegna che a queste procedure non si ricorre quasi mai, specie se non si hanno prove sufficienti del fatto che il marchio del secondo arrivato ti stia davvero creando un danno”.
Le possibili controversie
Ecco il nocciolo della questione: ma qual è allora il danno di cui si potrebbe essere accusati? E che rilevanza può avere questo danno, in particolare, nel mondo del vino?
“Si parla in generale, in materia di contraffazione, di sviamento (anche solo potenziale) di clientela”, spiega l’avvocato, “che appunto deriverebbe dal rischio che i consumatori possano confondere o quanto meno associare in qualche modo i prodotti delle due diverse imprese in conflitto. In realtà, per potersi correttamente parlare di danni, occorre sempre un esame di tutte le circostanze concrete della singola vicenda, specie in un mercato così variegato e suddiviso in tanti sottosettori come quello delle bevande alcoliche in generale, e già quello dei soli vini in particolare (naturali o convenzionali? ho.re.ca. oppure supermercato? con o senza denominazione? ..eccetera), cui corrisponde un altrettanto variegato ed ultra parcellizzato pubblico di consumatori”.
“Come per qualsiasi altro prodotto, anche per un vino il marchio serve innanzitutto al consumatore per distinguerlo tra i tanti offerti dal mercato”, spiega Bisceglia. “La teoria è che un consumatore, anche mediamente esperto di vini, non possa accontentarsi di conoscere soltanto la provenienza geografica (e quindi la Dop o la Igp, e in mancanza, almeno il o i vitigni) o altre caratteristiche di un vino quali ad esempio l’annata, il metodo di vinificazione, etc., ma ha bisogno di sapere innanzitutto quale sia l’azienda vinicola da cui proviene, per capire se quel vino risponderà o meno ai propri gusti”.
Anche per i vini, insomma, il marchio – che non a caso la legge chiama “marchio d’impresa” – serve essenzialmente a distinguere un prodotto soltanto dal punto di vista della sua provenienza imprenditoriale, e non per conoscerne in anticipo le caratteristiche qualitative.
“Ma beninteso”, avverte l’avvocato, “tra le informazioni fornite da un marchio d’impresa privato potrebbe anche esserci una certa dose di garanzia di qualità; solo che una tale garanzia discenderà dal marchio sempre in via indiretta e del tutto eventuale, e in buona sostanza, soltanto a beneficio del consumatore che già conosce quel brand per averne già sperimentato i prodotti in passato, o quanto meno per averne già positivamente sentito parlare da altri. Sembrerà assurdo, ma il nostro ordinamento consente tranquillamente che possa essere accusato di contraffazione persino chi adotta (magari, senza neppure saperlo) un marchio altrui per contraddistinguere in etichetta un proprio vino di qualità enormemente superiore, e di prezzo doppio o anche triplo rispetto a quello dei vini dell’accusatore”.
Ma come è possibile tutto ciò?
“Quelli che più si attivano per accusare i concorrenti di contraffazione lo sanno bene”, precisa la legale. “Molto dipende anche dalle differenti possibilità economiche delle parti in conflitto. Chi dispone di grandi risorse economiche, per prima cosa provvede a registrare tutti i propri marchi, non solo quelli che già utilizza, ma anche nomi non (o non ancora) utilizzati, che nel frattempo potrebbero essere stati ad esempio adottati da altri, magari piccoli vignaioli”.
“Spesso si tratta di nomi semplici e persino banali, alcune volte descrittivi del prodotto, altre volte di uso comune, e poco importa se già parecchio diffusi sul mercato. Depositare una gran quantità di marchi di vini, pressoché a tappeto, a volte potrebbe nascondere un’unica finalità: impedire che i concorrenti li utilizzino”, rileva Bisceglia. “Questo è successo soprattutto durante periodi di crisi, come il Covid, quando le cantine più grosse erano piene di vino invenduto e i loro legali passavano il tempo a mandare lettere di diffida accusando di contraffazione per lo più piccoli produttori (molti dei quali lanciatisi per la prima volta davvero a capofitto nelle vendite e nella promozione online dei propri prodotti). Quando poi però si scendeva nei dettagli, esaminando le circostanze concrete del singolo caso, e in particolare tutta la documentazione probatoria disponibile, spesso è saltato fuori che il marchio dell’accusatore avesse più di qualche problemino dal punto di vista della sua validità, o quanto meno della sua effettiva proteggibilità: e guarda caso, molte di quelle controversie sono state chiuse sul nascere, senza clamore, con un buon accordo di coesistenza”.
Le “crociate” delle grandi aziende
Vivi e lascia vivere, insomma. Solitamente una grossa azienda non vuole soldi, dunque, ma solo mettere dei paletti agli altri per scongiurare future insidie commerciali. Le grandi aziende si accontentano volentieri di accordi che permettono alle piccole di continuare a lavorare, ma senza più poter crescere ed espandersi.
E rivela l’avvocato: “Persino in quei casi dove gli appigli di diritto non sono molti, specie quando le prove documentali a favore dell’impresa più piccola sono poche o mal conservate, spesso si rivela di mera facciata la prepotenza di chi ti intima via pec di ritirare la tua domanda di marchio posteriore, e già che c’è, anche di smettere di commercializzare i tuoi prodotti: alla fine la montagna partorisce un topolino, e in cambio della tua rinuncia alla registrazione, ti viene sostanzialmente messo nero su bianco il permesso perpetuo di continuare ad usare quello stesso marchio come già stai facendo, ma con la promessa di non espanderti”.
Questo accade perché, a conti fatti, sono ben poche le imprese che, pur avendo enormi capacità di spesa, sarebbero realmente disposte ad affrontare il rischio di un’eventuale pubblicità negativa derivante dall’esito sfavorevole di un giudizio di contraffazione.
“Può senz’altro accadere” continua Bisceglia, “che il vignaiolo accusato di copiatura riesca invece a documentare il proprio uso anteriore in commercio (che di per sé è già sufficiente per continuare a commercializzare gli attuali prodotti, sia pure nei limiti merceologici e territoriali di tale preuso), e addirittura che riesca a dimostrare in causa di vantare un cosiddetto ‘preuso con notorietà generale’, tale cioè da avere persino la forza di invalidare, retroattivamente, il marchio registrato dell’accusatore”.
Non è quindi affatto da escludere che chi vanta un serio preuso, a patto di aver sempre conservato diligentemente tutta la necessaria documentazione, abbia grosse possibilità di avere la meglio in una controversia di questo tipo, se portata in tribunale. Perché, spiega Bisceglia, “il nostro ordinamento è pur sempre fatto in modo da proteggere innanzitutto chi lavora seriamente e da lungo tempo, persino quando non si sia mai preoccupato di registrare formalmente il proprio marchio”.
La statistica dimostra tuttavia che sono infinitamente meno, e spesso motivate soprattutto da acredini personali, le imprese che davvero osano avventurarsi fino alla fine in una lite giudiziaria. Mentre tutti gli accordi “privati” vengono conclusi, talvolta davvero last minute e persino a causa già iniziata, proprio immaginando quale potrebbe essere il potenziale esito della causa stessa.
In concreto, comunque, i soli vignaioli che davvero sono riusciti a fare accordi commerciali a loro totale vantaggio, che in rari casi spuntando anche una piccola contropartita economica, sono quelli che avevano avuto l’intelligenza di registrare i propri marchi sin dall’inizio, ottenendo per primi anche un’esclusiva “sulla carta”. E ovviamente, neanche a dirlo, che mantengono in promemoria le scadenze dei propri marchi, e ogni dieci anni si ricordano di rinnovarli per tempo. A differenza di brevetti, design, e persino del copyright, il diritto di marchio è l’unico diritto di proprietà intellettuale potenzialmente perpetuo, destinato – se mantenuto correttamente in vita – a durare per sempre.
La toponomastica e i nomi propri
Davanti poi alla toponomastica e ai patronimici (nomi propri o cognomi) registrati o utilizzati come marchi, è necessario aprire un capitolo a parte. Anche un personaggio celebre come Brunello Cucinelli, ad esempio, produce vini con il proprio nome in etichetta ed è evidente quanta confusione possa innescare in un consumatore, soprattutto all’estero. Così come la presenza nella stessa zona di tanti cognomi uguali, basti pensare ai Conterno nelle Langhe.
E Bisceglia spiega: “Della toponomastica di un luogo non si può appropriare in esclusiva una singola impresa privata se descrive la qualità dei prodotti agricoli che da esso provengono. E questo può valere non solo per toponimi blasonati come Montalcino e Barolo, ma anche per nomi di località non (ancora) protette dal sistema delle Dop e Igp”.
Rispetto ai marchi patronimici, invece aggiunge: “Salvo eccezioni del tutto casuali, nomi e cognomi non hanno alcuna attinenza con il mondo enologico e di conseguenza, se usati per commercializzare vini, dovrebbero avere una forte capacità distintiva ed essere sempre tutelati in base alla consueta regola del chi primo registra può vietare a tutti gli altri di farne uso, salvo il solo uso in funzione meramente descrittiva (ad es. nella retro etichetta, e in caratteri molto piccoli, se fa davvero parte del nome dell’impresa imbottigliatrice). Tuttavia, per nomi o cognomi estremamente diffusi (ad es. Rossi), occorrerà valutare la capacità del pubblico di ricollegarlo immediatamente, o meno, ad una precisa impresa vitivinicola. Anche la nostra giurisprudenza tende a considerare i consumatori italiani di vino sufficientemente esperti da sapere che, specie se una determinata zona è vocata, ci saranno più produttori con lo stesso cognome. Questi nomi, anche quando registrati, dovrebbero puntare su elementi distintivi ulteriori che li differenzino gli uni dagli altri”.
Chi è
Avvocato, Raffaella Bisceglia segue soprattutto aziende del settore Food&Wine in materia di diritto commerciale, proprietà intellettuale e concorrenza, materia in cui ha conseguito anche un dottorato all’Università di Parma. Alla Loyola Law School di Los Angeles ha conseguito un master in American and international commercial law and legal practice. Già assaggiatore esperto e docente abilitato Onav, è diplomata WSET Level 3 in Wines e fa parte dell’associazione Le Donne del Vino.
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