TORNARE NELLA STORIA: L’AQUILA E LE GRANDI EPIDEMIE DEL PASSATO

L’AQUILA – Ho spesso l’impressione che la serie di drammi quotidiani che stiamo vivendo da settimane, raccontati in modo incalzante, dettagliato dai media e dai social media, incarnati in un disseminato, forse dissennato, elenco di numeri e di percentuali, finisca inevitabilmente col logorarci, col recidere piuttosto che col rafforzare i legami emotivi, empatici che abbiamo con il mondo fuori dalle nostre case.
Ci creiamo attorno una sorta di bolla con la quale cerchiamo di proteggerci da quello che il sociologo Zygmund Bauman chiamava “il demone della paura”.
Questa bolla però, se da un lato ci difende dall’insostenibile dolore che sta affliggendo le nostre comunità, dall’altro produce anche un effetto di isolamento: ci isola dalla comunità stessa, ostacola la comprensione della complessità che ci circonda, spezza i legami con i nostri luoghi, interrompe la narrazione storica lasciandoci in un presentismo sempre più asfittico – passato e futuro si allontanano inesorabilmente lasciandoci soli, spaesati.
E se perdiamo il rapporto con il nostro passato, finiamo col perdere la visione del futuro, la speranza nel futuro. Ma non solo, corriamo pure il rischio fondato di trovarci impreparati all’occorre di un problema, di un’emergenza; e chi più degli aquilani può testimoniare gli effetti nefasti della perdita di memoria collettiva? Se ogni catastrofe “sembra sempre essere la prima” ad abbattersi sui nostri destini non è forse, oltre che compito della politica, anche nostra corresponsabilità di cittadini? La prevenzione non passa anche attraverso la conoscenza e la storia del territorio? E non è forse vero che abbiamo smesso di raccontarci la nostra storia?
Così come nel 2009 il ricordo del terremoto si era perso nella memoria collettiva, così oggi, nel 2020, quasi non c’è più traccia delle epidemie che fin dalla fondazione della città hanno falcidiato la popolazione aquilana.
È Buccio di Ranallo, il principale cronista della fondazione, a raccontarci le epidemie di peste che colpirono L’Aquila nel 1348 e nel 1363, nel mezzo delle quali si verificò anche il primo terremoto distruttivo del 1349. La docente di Storia Medioevale dell’Università dell’Aquila, Maria Rita Berardi, ne ricostruisce gli eventi nel saggio “Epidemie e politica sanitaria nell’Abruzzo aquilano fra i secoli XIV e XVI” (Bollettino Dasp, 2018), nel quale ricorda che lo stesso Buccio morì nel 1363 proprio di peste, o delle successive epidemia e carestia del 1375 testimoniate da Antonio di Buccio, o ancora delle cronache del frate Alessandro De Ritiis che nel 1463, a soli due anni da un altro terremoto, descrive la città assediata dai nemici all’esterno e martoriata dalla peste all’interno delle mura.
Le sofferenze che patirono gli aquilani, come ogni popolo che affrontò quei secoli, sono inimmaginabili se le osserviamo con gli occhi di oggi, e non solo per le enormi differenze nel campo della medicina, ma anche per le radicali difformità della politica, per il netto divario tra le classi povere e agiate, per le difficoltà che si dovevano incontrare solo per avere un minimo d’igiene, o per reperire cibo durante le epidemie.
Nel 1478 la città, come tante altre in Italia, è colpita da un’altra ondata di peste, riporta Francesco d’Angeluccio di Bazzano nel suo Cronaca delle cose dell’Aquila dall’anno 1436 al 1485. L’epidemia dura anni. Nel 1493 si diffonde invece una febbre virale che nel giro di dieci giorni porta alla morte, annota ancora De Ritiis. Perì gran parte degli abitanti dei paesi del contado.
Oltre alla dominazione spagnola, alla decadenza delle attività produttive del VXI secolo contribuirono le pestilenze del 1503 e del 1505; la città visse un crollo demografico vertiginoso. Fu un periodo duro per L’Aquila, che dopo vent’anni dovette affrontare anche la punizione di Filippo d’Orange per la tentata ribellione contro gli spagnoli: agli aquilani furono sottratte tutte le terre del contado e gli fu imposta la tassa di 100.000 ducati annui per finanziare la costruzione del Forte che avrebbe represso definitivamente la loro audacia. E, come non bastasse, seguì un’altra epidemia che addirittura costrinse a spostare la sede del governo cittadino a Paganica.
L’ultima grande pestilenza si ebbe tra il 1656-57 e colpì duramente il Regno di Napoli. Nella sola capitale provocò circa 200.000 morti, quasi la metà degli abitanti, mentre nel resto del regno il tasso di mortalità arrivò a toccare anche il 50-60% della popolazione. All’Aquila, per contrastare il contagio, furono chiuse ermeticamente le porte d’accesso alla città, nel Borgo Rivera fu istituito l’ospedale Buonfratelli della chiesa di San Vito e furono creati degli appositi lazzaretti nel casino Colantoni, nella casa signorile Micheletti di Preturo e nella chiesa di Sant’Antimo a Tempera. Nonostante ciò la città pagò un caro prezzo: 2294 morti su circa 6000 abitanti.
Ogni epidemia riportata in questa breve cronaca certo non è paragonabile per numeri e per contingenze storiche o sanitarie a quanto stiamo patendo in questi giorni a causa del CoVid-19. Trovo però che possa avere una piccola utilità: calarci in un grande flusso temporale, quello della dolorosa e secolare lotta tra gli esseri umani e i virus; e, forse, spero possa anche relativizzare le piccole, grandi insofferenze e le piccole, grandi sofferenze che affrontiamo oggi tra le nostre mura domestiche.
(Foto archivio Amalia Sperandio)
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