Ristoranti e insegne 03 Feb 2025 17:55

Nell’osteria campana (dell’anno) dove il cellulare non prende: “Chi entra deve connettersi con gli altri”

Nell’osteria campana (dell’anno) dove il cellulare non prende: “Chi entra deve connettersi con gli altri”

SALERNO – Resistenza umana o allineamento di pianeti? Entrambe le cose per Sabrina Prisco, da vent’anni in trincea per difendere il bello e il buono tra le vecchie mura della sua Osteria Canali, un luogo di racconti non solo gastronomici nel cuore della Salerno antica. Un porto sicuro per naviganti del pensiero, atmosfera bohémien, presidio dei sapori cilentani, “un circolo culturale con angolo cottura” come ha chiosato un assiduo, in ogni caso un mix sapientemente “sussurrato”.

L’insegna, già riconosciuta dalle guide di settore, è stata incoronata Trattoria dell’Anno della Campania da Mangia&Bevi 2025 del Mattino di Napoli.

Virtù Quotidiane ha incontrato Sabrina Prisco che nel suo Racconti in Osteria di recente pubblicazione (Homo scrivens) festeggia i vent’anni dell’Osteria attraverso storie e pensieri di molti dei suoi speciali frequentatori.

Ostessa e letterata, Sabrina, salernitana, classe 1970, ha alle spalle una carriera nella sanità da volontaria Ail a coordinatore di sperimentazioni cliniche in campo ematologico. Nel 2018 la scelta di campo credendo nel territorio d’origine, il Cilento.

Con lei una squadra affiatata e solidale con Fabio Lapadula in cucina e Giovanni Camarda responsabile di sala “quasi fratelli, e interscambiabili se necessario”, con l’aiuto dello “splendido” Gihan, singalese, e delle fidanzate di Fabio e Giovanni nelle serate di pienone come normalmente accade in occasione del Festival Salerno Letteratura e di altri format culturali con cui Sabrina collabora.

Minestra strinta, parmigiana di melanzane e maracucciata sono i piatti bandiera dell’Osteria. La sua filosofia passa per la cucina di casa?

Tutto parte dal mio Cilento, è il mio stile e fonte di ispirazione, la mia ancora. Per me significa non perdere la rotta. Un concetto che a mio avviso vale per tutta la ristorazione in generale: ognuno deve trovare la sua impronta e seguirla, non lasciarsi portare fuori strada. È ciò che ha favorito il successo di questa attività. A Salerno sono veramente pochi i locali che vantano una tale longevità, il settore è in crisi, inutile negarlo. La tradizione fatta di verità , di cibo vero e onesto, nei limiti e nelle possibilità di quello che si conosce e che si sa fare, può essere un’arma vincente. Io so fare questo e non farò mai sushi.

Nessuna deroga?

L’unica che mi concedo è di riportare in cucina qualcosa che incontro nei miei amati viaggi, tipo al rientro dalla Calabria per un paio di settimane abbiamo proposto in menu pasta con la nduja oppure la struncatura (sorta di fettuccina ricurva su se stessa, “troncata”, in origine fatta con residui della molitura del grano, ndr). Allo stesso modo amo il tartufo bianco di Alba (Cuneo). A capodanno avevamo il brodo con i tortellini artigianali portati da mia sorella da Bologna, costano un botto ma rappresentano un’eccellenza italiana meritevole di rispetto. Che poi, quando mi succede di innamorarmi di un piatto originale di un posto, tipo la cheesecake salata del ristorante Angiolina di Marina di Pisciotta (Salerno) con dentro l’acciuga di menaica, la adotto per un periodo e la presento come la cheesecake di Angiolina, è un omaggio che le facciamo.

Scelta dei vini, come vi regolate?

Stessa regola. Proponiamo vini essenzialmente campani e cilentani, ovviamente non mancano grandi classici di qualità e guardo con attenzione a vini altri di cui mi innamoro come nel caso della giovane produttrice Rossella Cicalese di Eboli (Salerno) o dei vini di montagna di Adriana Tronca in Abruzzo, che ho voluto invitare di nuovo in Osteria per raccontare la sua storia di passione e coraggio. Mi appassionano molto le storie delle persone dietro il vino, raccontarle significa impreziosirne il valore. Nelle piccole aziende c’è una stretta relazione tra il vino e la vita delle persone che lo fanno. Mi ha colpito per esempio durante la degustazione di un Taurasi il ricordo della gelata impressasi nella mente di un produttore: molto spesso la differenza di valore tra l’osteria e il ristorante la fa proprio il racconto.

Dediche e graffiti d’autore tappezzano le pareti dell’Osteria, da Erri De Luca a Franco Arminio, Maurizio De Giovanni, Francesco Piccolo, Paolo Virzì… Com’è arrivato il successo?

Importante è stata l’amicizia con Maurizio De Giovanni, all’epoca semisconosciuto. Ci siamo incontrati a Caprioli, in Cilento, dove mia sorella, libraia, lo invitava a presentare i suoi libri nella sua Libreria del Mare, io di riflesso lo invitavo in autunno nella mia osteria. A un certo punto Maurizio mi ha chiesto suggerimenti sulla cucina cilentana in quanto la sua Signora Rosa ovvero la governante del Commissario Ricciardi, era cilentana d’origine. Perciò in 4 dei suoi libri ci sono le nostre ricette. In molti avendo letto il nome dell’Osteria tra i ringraziamenti, arrivavano qui per conoscerci. Nel frattempo siamo diventati un po’ il quartier generale di festival d’arte come Salerno Letteratura, Linea d’ombra, Tempi moderni, accogliamo moltissimi artisti e personaggi eccezionali, lavoriamo in rete, uniti per resistere ai tempi di decadenza, in questo il cibo ha un ruolo importantissimo, a tavola si cambiano le sorti del mondo. Altra grande fortuna dell’Osteria è che qui il cellulare non prende, chi entra deve per forza connettersi con gli altri, parlare, interagire.

Da alcune stagioni la vostra “Cena di Babette” del 15 dicembre è un appuntamento irrinunciabile, come si svolge?

Credo sia un evento unico nel suo genere per riproporre il menu nei minimi dettagli e la lettura integrale del racconto di Karen Blixen, affidato alla bravissima Brunella Caputo, con la musica eseguita dal vivo. Si tratta di un vero e proprio spettacolo di teatro per soli 12 commensali, invitati a vestirsi come nel racconto. Si crea un’atmosfera meravigliosa, una magia, per due ore e mezza l’Osteria si trasforma nella casa delle anziane sorelle Martina e Philippa, c’è il tavolo imperiale nella sala principale apparecchiata con cristalli e piatti vintage, i momenti di musica e parola intervallano il menu e ovviamente anche i vini sono quelli: Veuve Clicquot, Pinot noir di Borgogna e quanto altro citato nel racconto. Ogni volta, questa edizione è stata l’ottava, mi commuovo e piango senza pudore, ci scopro sempre qualcosa di nuovo, c’è l’enfasi dell’artista: “Un’artista non sarà mai povera” dice Babette, e poi c’è il coinvolgimento degli ospiti che entrano fisicamente nel racconto. Ho anche scoperto che è il film prediletto da Papa Francesco! Un progetto che da quest’anno vorrei esportare, ho richieste da Napoli, è un vero e proprio pacchetto, ogni volta che lo lancio va immediatamente in sold out e non sempre si replica.

Il futuro dell’Osteria Canali?

Grande domanda. Salerno non è Torino, negli ultimi anni il centro storico ha subito un calo di attrattiva rispetto al suo lungomare e alle nuove piazze generate da grossi ma freddi investimenti. In realtà il centro antico è un vero gioiello e merita di essere rivalutato. Solo in Via Canali c’erano quattro locali e un gran movimento, ora siamo rimasti soli, non c’è nemmeno più l’ostello della gioventù riconosciuto tra i più belli d’Italia, i Giardini della Minerva sono chiusi da diverso tempo per disposizione della Soprintendenza. Il futuro non è chiaro, vorrei dare continuità alle persone che hanno iniziato 7 anni fa insieme a me perciò sto cercando un posto alternativo a questo magari verso il mare, ci potrebbe essere un trasferimento, l’anno in corso sarà determinante. Diversamente continueremo l’altalena tra l’inverno qui e l’estate al fresco di San Mauro la Bruca, profondo Cilento, dove ho casa, la cantina di mio padre che sto riportando in vita e il giardino. Sto avviando il progetto parallelo della Cantina Socievole ed il Piccolo festival delle cose minime (Pfm) con poeti, musicisti, cantastorie, proiezioni, cose minime.

Anche il vino è una costante dei suoi percorsi, qual è la novità?

Con l’aiuto di Bruno De Conciliis, figura di riferimento del Cilento enoico, durante la pandemia ho realizzato un bianco e un rosso da vigne dismesse, uve miste del paese: barbera, piedirosso, aglianico, sciascinoso per il rosso, che ho chiamato Mario come mio padre; malvasia e la rara Santa Sofia (vitigno storico del territorio iscritto nel Registro nazionale delle varietà di vite, ndr) che ho chiamato Clelia come mia madre. Ho anche piantato una piccola vigna di aglianico a bacca bianca, altra rarità, seguita da De Conciliis e da Pasquale Persico (economista di fama e riscopritore delle cantine ipogee cairanesi tra l’Irpinia e il Cilento, un patrimonio enorme, ndr). Dovrei fare la prima vendemmia quest’anno, è uno dei pochissimi progetti sperimentali in corso su un’uva di questo tipo, farò una recinzione a prova di cinghiali…

Confida nella cultura?

È fondamentale, è l’unica salvezza possibile, per me una forma di resistenza. Da parte della politica e delle istituzioni si assiste alla demolizione strategica di quanto fa cultura, scuola, cinema, librerie, cucina, vino e tutto ciò che stimola l’intelligenza.


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