L’AQUILA – Durante quest’ultimo periodo ho frequentato un libro, Sognare la Terra, scritto da Fabrice Olivier Dubosc (2020) e mi sono chiesto se potesse esistere anche nell’urbanità contemporanea la figura del troll. Chi è o cos’è un troll nella città contemporanea? Dove si nasconde questa figura mitologica nell’urbanesimo metropolitano?
Andiamo per gradi e andiamo a prenderci per prima cosa la definizione di troll: “Nelle leggende scandinave… è descritto come una creatura ruvida, irsuta e rozza… quando è colpito dalla luce del sole diventa di pietra, dunque si muove solo di notte o nella foresta più fitta”, abita caverne…
Se trasponiamo questi caratteri leggendari sul comportamento che chiunque di noi potrebbe avere, arriva immediata l’associazione col troll internauta: ossia quel “soggetto che interagisce tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o del tutto errati con il solo obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi”.
Ho immaginato che il troll urbano e l’internauta abitino gli stessi luoghi, quelli offerti dalla rete. Questo accade perché gran parte del confronto sui temi urbani avviene sui social, difficilmente viene incoraggiato dall’Ente locale mettendo a disposizione uno spazio istituzionale, riconosciuto, legittimo…
Stando così le cose, conviene indagare le forme che assume il comportamento del troll urbano: egli rifugge la luce del sole dello spazio pubblico, si rifugia nelle caverne e nelle foreste del web. E rifuggire la luce dello spazio pubblico è un dato sostanziale: la paura di essere pietrificato coincide con la paura di essere ammutolito.
Ecco la prima antinomia, quella fra spazio pubblico e spazio virtuale, quella fra i luoghi in cui esiste l’assemblea dei corpi che si manifestano, si scelgono, generano conflitto e soluzioni ed i luoghi immateriali in cui si “associa alla visibilità immediata dei messaggi l’anonimato fisico. Permette di affiliarsi nascondendosi senza dover rendere ragione personalmente a un interlocutore”.
Il troll urbano si nasconde in quelle caverne virtuali dal mondo urbano. E che accade? Al manifestarsi di certe istanze da parte di un gruppo di cittadin* su questioni relative ai grandi temi della città, il troll ha un atteggiamento evitante o distraente (come estrarre variopinti uccelli dal cilindro). Egli non comunica le questioni urbane, o peggio, non appartengono alla sua agenda; non comunica con la città, né con la comunità, non si manifesta mai nello spazio pubblico: egli teme l’ingaggio col dibattito aperto. Il troll predilige una comunicazione finalizzata a propiziare un unico punto di vista, il proprio. È il trionfo della dialettica egoica: è negarsi, non incontrare le ragioni dell’altro. Affida il proprio racconto distorcente a mezzi spersonalizzanti o unidirezionali come post social e dirette o interviste autopromosse.
Questo ostinato individualismo paralizza e pietrifica il dibattito urbano, lo esclude a priori come possibilità di sviluppo. Il troll urbano rappresenta quindi sempre una perdita: per sé stesso e per gli altri. Egli a tutti e tutto nega, nel perdurare di un individualismo escludente e sfascista della possibilità solidale.
Egli parte sempre da una rivendicazione, che divora i processi di umanizzazione relazionale, quei processi che generano conflitto ma anche crescita e progresso; i suoi sforzi di attaccare il prossimo e altre soluzioni possibili ai problemi della città, ne rivelano lo scetticismo conservatore. Il troll sempre si crogiola nell’evidenza quasi ontologica dell’essere fatto “proprio così”, come a dire “è la mia indole”.
Alla fine alla città non resta altro che la negazione di qualsiasi possibilità evolutiva: l’arida eredità del troll.
Una soluzione possibile allo sbocco egoico e pietrificante del troll è il passaggio attraverso lo spazio fisico dell’assemblea, la discussione ed il dibattito pubblico. Sono spazi in cui l’unione dei corpi fa la forza della comunità, spazi che i troll non frequentano oppure spazi in cui guariscono: gli imbonitori ed i dissacratori, i cinici travestiti da civici, gli “etero sapiens patriarcalis” che dileggiano l’inclusività.
La soluzione è l’intreccio della propria storia con quello del proprio contesto, la soluzione è rinunciare soliloquio per condividere un racconto di comunità: la soluzione sta, come insegna Hannah Arendt, nel “Chi sono io per te?”. Quirino Crosta