PRODOTTI DI MONTAGNA NEL PIATTO, LA RICERCA DI GILDO PER LA FASE 2

di ERMENEGILDO BOTTIGLIONE*
L’AQUILA – Non disperdiamo il nostro patrimonio di conoscenze e adattiamolo alle novità. Innanzitutto, scusate se per un buon periodo di tempo, non ho scritto più articoli per Virtù Quotidiane.
Il motivo è stato solo per ritrosia, non voler stancare il lettore, nella narrazione di quegli stati ti d’animo, che accostano le sensazioni sensoriali a ricordi, emozioni e razionalizzazioni di esperienze vissute, emozionali e condivise.
Ma, adesso, nel consolidamento di una fase due, nel percorso di uscita dalla pandemia, negli sforzi per riappropriarci dei nostri spazi, di mettere in gioco le nostre competenze per risollevare il tessuto economico e sociale dell’Abruzzo, mi viene di fare alcune considerazioni.
Partiamo sempre dall’esperienza, dal saper fare, dal voler condividere.
Ieri, stavo andando in edicola, munito della sacrosanta mascherina e già fuori c’era il movimento di ripresa nei giardini della Villa Comunale.
Uscito dall’edicola un bambino mi guarda curioso e chiede alla mamma: chi è quel signore..con la maschera? La mamma, pronta: è un super eroe che affronta i cattivi…. Io mi sono sentito sciogliere, quasi volevo abbracciare quella mamma….Era semplicemente una donna che raccontava al piccolo uomo, attraverso figure avvincenti, il periodo che stiamo vivendo, in cui tutti siamo chiamati a fare la nostra parte. Anche ad essere solidali con gli altri, con tanto e con poco.
Tornato a casa ho mangiato un piatto con ingredienti di montagna: il pane carasau, la scamorza, i pomodori dell’orto, le patate. Ho assemblato come fogli a più strati il pane carasau, bagnato, con pomodorini confit, asparagi, scamorza a pezzetti e patate, olio ed erbette.
Poi ancora una a fetta di pane carasau e poi ancora gli stessi ingredienti del primo strato. Un po’ di cottura nella teglia, a far sciogliere i latticini e ad amalgamare gli ingredienti. Sono venuti fuori profumi di terrra, di orto ,del caseificio, dopo la fatica dell’allevamento e la manipolazione del latte. Una bontà originale, l’origano che spingeva in alto i licopeni dei pomodori cotti nel forno, la terrosità delle patate che si legava con la dolcezza della caseina modificata dal calore e consegnata all’assaggio, stesa sul pane antico dei sardi.
Il bicchiere di vino, che questa volta era destinato all’incontro, alla sintesi e al completamento del gusto era un cerasuolo superiore di 14 gradi, del duemiladiciotto, di Nocciano, colline pescaresi degradanti verso il mare, dopo che la strada del vino da Ofena si è inerpicata fra le strette valli e i vadi del Gran Sasso e poi, di nuovo, ha portato i pastori e i pellegrini verso la costa.
Un cerasuolo, schietto, denso di sottobosco, frutti maturi, un alcool equilibrato dall’acidità, avvolgente, che quasi per magia afferrava le spezie del piatto, i suoi pomodorini, il grano del carasau e dava sensazioni di soddisfazione del gusto, facendo capire come la montagna può dare frutti inaspettati, intensi e pieni di inviti.
La montagna non va abbandonata, va ritrovata sia come luogo di residenza, di lavoro e di confronto per un futuro di nuove risorse.
Quello che ci fa mangiare la montagna è anche il simbolo di ciò che possiamo dare agli altri in termini economici e di cultura.
I cuochi, lo sanno e conoscono bene le loro capacità di trasmettere i valori e il calore della nostra terra. Mi viene da sussurrare o …da gridare: non demordiamo, andiamo fino in fondo a trasmettere tutto ciò che possiamo di noi e di quel vino così carico di racconti, quel cerasauolo che i nostri vignaioli abruzzesi sanno declinare in tanti modi diversi, ma con la stessa efficacia e certezze.
È un vino che appartiene alla terra, alla nostra agricoltura e ci fa conoscere, insieme ai nostri centri universitari e i nostri monumenti naturali e culturali.
Pensate la provincia dell’Aquila che può offrire al mondo l’Infn, il Gssi, la nostra università, Santa Maria di Collemaggio e frutti della terra così esclusivi come zafferano, tartufo, olio….
Potrebbe sembrare un intruso il pane carasau sardo, ma non lo è, perché è parte integrante della cultura dei pastori, dell’arte della lunga conservazione degli alimenti, comune al nostro Mediterraneo e consapevoli, oggi, come non mai, che anche a migliaia di cilometri di distanza ci si possa influenzare gli uni e gli altri. È a un passaggio corale quello che penso, so che non è facile, ma proviamoci.
*esploratore del gusto
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