Luciano Passeri pizzachef: “Il lievito? Non gli corro dietro, ci teniamo per mano”

SAN GIOVANNI TEATINO – “Mi basta guardare in faccia l’impasto per capirlo, e se c’è bisogno correggerlo”. Luciano Passeri, pescarese classe ’71, pluripremiato chef di pizza, vulcanico imprenditore del settore, va subito al sodo. È un pragmatico, uno che viene dalla gavetta e sa mantenere un profilo umile. Maestro degli impasti, titoli mondiali, un anticipatore di stili e tendenze nel mondo pizza e affini, direttore della scuola per pizzaioli dell’Accademia di Portogruaro (Venezia), giudice di gara certificato e giudice televisivo, una carriera ormai trentennale, benvoluto da colleghi anche più autorevoli (Gabriele Bonci e Heinz Beck posson bastare?).
Oltre ai tre figli legittimi che lo adorano, Luciano Passeri conta un numero imprecisato di figli acquisiti, oggi professionisti affermati a cui ha fatto da coach, mentore e padre. E un locale di successo, una macchina da guerra, Foconè, pizzeria osteria contemporanea sulla via Tiburtina tra Pescara e Sambuceto, con dependance dirimpetto, Milù, entrambi specchio della sua innata vocazione all’accoglienza e della voglia di sperimentare senza sosta tra pizzeria cucina e brace viva. Il pizzachef pescarese ha voluto raccontarsi a Virtù Quotidiane.
Come nasce la sua avventura tra i fornelli?
Sono figlio di giocattolai e ho trascorso l’infanzia alle prese col Dolceforno, ma anche spalancando gli occhi sulle tradizioni culinarie abruzzesi che i miei nonni paterni con cui sono cresciuto, mi hanno tramandato partendo proprio dalla campagna di Villa del Fuoco, periferia di Pescara dove con nonno Armando e zio Costantino si portavano avanti tutti i lavori di campagna. Un mondo che mi è entrato dentro, la stagionalità del cibo è nel mio Dna.
Tra cucina e pizzeria ha puntato sulla seconda per distinguersi.
Fare un piatto di pasta mi risultava più facile che dar vita a un impasto, condirlo e cuocerlo a dovere. Così ho cominciato dalla pizza, la cosa più difficile, e con questo non vorrei peccare di presunzione. Ero incantato dalla trasformazione di acqua e farina messi insieme, la rotondità dei volumi che sviluppano, e poi la magia della lievitazione. Ancora oggi che lavoro il lievito naturale con una certa esperienza, le sorprese non mancano. E’ nella natura di una materia viva e imprevedibile, sensibile a ogni condizione esterna. E’ proprio quello il mistero che mi lascia attonito. Il fatto che il lievito possa ammalarsi mi mette in ansia, devi curarlo come una creatura, anzi devi allenarlo dico io. In base a come lo alleni ti darà un grande lievitato, strutture e scioglievolezze di pizza, un pane spaziale. Il lievito naturale va nutrito in un certo modo, fatto riposare, rinfrescato. La mia passione nasce così.
A metà anni 90, quando lei ha iniziato, qual era l’idea di pizza?
Molto basica, si guardava alla pizza come piatto di recupero, una proposta di serie B, un prodotto di massa senza consapevolezza della qualità degli impasti né delle farine nè degli ingredienti, nessuna velleità o aspirazione.
Lei invece?
Io avevo scelto di investirci, di sperimentare, capire. Le mie pizze non erano semplici Margherite o Capricciose, ho introdotto le creme anche dolci con la pizza dessert, la padellino al vapore soffice dentro e croccante fuori, la precottura degli impasti ad alta idratazione e anche del pane, i grandi lievitati, le basi pronte per pizza in teglia, il pane hamburger. E mi sono dotato di abbattitori quando neanche i ristoranti di pesce l’avevano.
Un gioco serio insomma.
Quel gioco dei bambini degli anni 80, il Dolceforno, mi ha portato a inventare espedienti per poter cucinare. L’ingegno nel cercare nuove soluzioni, impasti e metodi mi arriva dal modellismo, altro settore forte nell’attività dei miei genitori, e dal gioco del meccano. Oggi tutti parlano di lievito madre e temperature di maturazione e riposo tra le più svariate, io invece lavoro a freddo, ho adattato il lievito a me, non gli corro dietro, ci teniamo per mano.
Dove si è formato?
Agli inizi un pizzaiolo pasticcere salernitano mi ha trasmesso i rudimenti, un modo di fare del passato, buttavo dentro acqua, farina manitoba e nazionale di grandi mulini industriali, e lievito. La mattina per la sera, senza troppa cognizione di causa. Lavorando così mi sono accorto che non ottenevo risultati ottimali, ho iniziato con le maturazioni in frigo a 24 e poi 48 ore. Poi sono entrato nella formazione, ho iniziato a capire che c’era una chimica nella combinazione delle farine, mi sono appassionato allo studio al fianco di maestri della panificazione, all’epoca Piergiorgio Giorilli (fondatore e presidente del Richemont Club Italiano e docente di panificazioni speciali alla Cast Alimenti di Brescia, ndr), ho conosciuto mugnai e panettieri, ho osservato molto come si lavorava il pane antico nelle varie regioni. Sono dell’idea che noi pizzaioli siamo figli della panificazione, oggi nelle pizzerie lab tipo la mia si trovano pani e grandi lievitati di altissimo livello da fare invidia a panificatori e pasticceri.
Verso chi altro si sente riconoscente?
Sicuramente ho un debito di gratitudine verso Enrico Famà (direttore di Ristorazione italiana magazine, ideatore e curatore della guida 70 Best restaurants with pizzeria in the world, ndr) che ha inventato le prime scuole con docenti professionisti, i primi concorsi e le prime trasmissioni televisive con i pizzaioli, motivi per cui io sono qui oggi. Enrico mi ha dato l’opportunità di riconoscermi, la mia curiosità e la mia passione poi mi hanno fatto da guida.
Nel 2005 il titolo mondiale di Campione della pizza, come ricorda quel momento?
Sono stato premiato a Salsomaggiore Terme (Parma) da Miss Italia Cristina Chiabotto, che mi portò fortuna, un grande ritorno di immagine anche per me. La vittoria della mia Mamilù (crema di zucca, fiordilatte, gorgonzola, pancetta, pomodorini marinati, olio evo, sale Maldon, origano, scaglie di Reggiano 30 mesi, ndr) fu annunciata il 16 marzo e mi premiarono dopo la mezzanotte, il 17, giorno del mio compleanno. Subito dopo però mio padre ha avuto disavventure di salute e io ho perso molto tempo dietro l’attività di famiglia, a discapito della mia carriera. Da quella grandissima chance ho potuto ricavare poco, ma i miei genitori mi hanno trasmesso il senso del sacrificio. Dal giorno dopo il campionato sono stato travolto dalle richieste dalla clientela, ho deciso di non andare oltre i coperti che avevo nella mia piccola pizzeria. Questo ha creato grande attesa, lavoro assicurato, così ho potenziato le mie strutture sulla Tiburtina.
A quali prodotti è più legato?
In netto anticipo su tanti venuti dopo, ho scommesso sul pomodoro Pera d’Abruzzo, come ha raccontato anche Gambero Rosso in uno speciale a tema qualche anno fa. Con i miei partner agricoli condivido etica del lavoro e passione contadina, con loro ho personalizzato le materie prime che utilizzo in laboratorio, filiera corta e artigianale: i vegetali sono prodotti da Roberto e Miranda Sborgia a Pianella (Pescara), Paolo, Danny e Giuliano di Molino Mariani coltivano e lavorano il mio grano, “il grano della scioglievolezza” come si racconta nella nuova campagna di comunicazione del Molino di Senigallia. Piero Marzari artigiano norcino in zona Porta Nuova di Pescara mi fornisce ventricina e pancetta, dall’azienda agricola di Enrico Fracassa arrivano i cotti, mortadella e guanciale, dall’azienda di Gregorio Rotolo le carni ovine e i formaggi. Proprio su desiderio di Gregorio è nata la pizza con tartufo bianco e la sua ricotta scorza nera, che periodicamente ripropongo.
LE FOTO
pubbliredazionale
Sostieni Virtù Quotidiane
Puoi sostenere l'informazione indipendente del nostro giornale donando un contributo libero.
Cliccando su "Donazione" sosterrai gli articoli, gli approfondimenti e le inchieste dei giornalisti e delle giornaliste di Virtù Quotidiane, aiutandoci a raccontare tutti i giorni il territorio e le persone che lo abitano.