CIOCCOLATO BEAN TO BAR, È DI UN’AQUILANA LA PRIMA FABBRICA NICARAGUENSE

L’AQUILA – Se non è bean to bar non è cioccolato, dicono i palati sopraffini. Ma la produzione del vero cioccolato artigianale ha una marcia in più se la materia prima ce l’hai sotto casa.
Lo sa bene Beatrice Rosa, 50enne dell’Aquila, che dopo una vita spesa nella cooperazione internazionale, si è lanciata in un’iniziativa imprenditoriale in Nicaragua, dove alcuni amici del posto avevano aperto una fabbrica di cioccolato, Momotombo. La prima e tuttora la più importante delle tre esistenti nel paese sudamericano.
“Siamo cinque soci e impieghiamo manodopera locale, quasi tutta femminile, tra la produzione e il negozio sono una ventina di persone – racconta a Virtù Quotidiane – La particolarità è che si tratta di cioccolato bean to bar, cioè dal grano alla tavoletta. Quello che in Italia chiameremmo chilometro zero. Momotombo compra il cacao direttamente dai produttori, e quello nicaraguense dall’anno scorso è entrato tra gli undici Cacao fino de aroma, cioè tra gli undici migliori al mondo”.
I contadini raccolgono la cabossa, che viene spaccata a mano con il machete per estrarre la gelatina con dentro i semi di cacao. La gelatina viene messa a fermentare in delle casse di legno dove si raggiungono i 50 gradi, quando è arrivato ad un giusto livello di fermentazione, che di solito raggiunge in due o tre di giorni, le fave vengono estratte e messe a essiccare al sole. È quando raggiungono un basso grado di umidità, generalmente dopo un paio di settimane, che le rende perfette per la lavorazione, che Momotombo le acquista.
“Una volta che entra in fabbrica – spiega Beatrice – il cacao viene tostato, poi macinato e poi decorticato della pellicina che lo avvolge. Poi passa ad un raffinatore di pietre di granito. Alla fine esce un liquore di cacao. Vengono aggiunti altri ingredienti e si passa ad un processo di temperaggio, che è quello che permette alla tavoletta di conservarsi”.
Momotombo per ora esporta negli Stati Uniti ed ha presentato i propri prodotti in Giappone.
“In Italia per la prima volta solo quest’anno al Salon du chocolat di Milano” dice Beatrice, che spiega come sia difficile pensare a grandi esportazioni anche perché “la nostra produzione è artigianale, anche se è cresciuta nel tempo. All’inizio avevamo un solo tipo di cioccolato, che non è temperato, quindi con una scadenza limitata”.
Dopo la laurea in Economia a Siena e la prosecuzione degli studi negli Stati Uniti, per Beatrice è iniziata l’avventura con la cooperazione internazionale che l’ha portata prima in Guatemala, presso un centro di accoglienza per ragazze madri, poi nei Balcani attraversati dalla guerra, in Macedonia ad accogliere i profughi del Kosovo.
“Le prime esperienze in questo campo sono sempre difficili – racconta – si inizia con attività di volontariato, in Macedonia ho gestito due progetti di aiuti umanitari, uno era di alimentazione e l’altro generatore di reddito. Da lì, nel 2003 sono partita per il Nicaragua per andare a gestire un progetto di appoggio ai produttori di caffè e mi occupavo di tutta la parte del microcredito”.
“Ho continuato a lavorare nella cooperazione, sono stata un anno in Ecuador, poi ad Haiti e in Algeria. Fino allo scorso anno ho lavorato in Salvador e in Honduras. Poi ho lasciato la mia organizzazione, iniziando a lavorare in maniera indipendente ma sempre nella cooperazione internazionale”.
“Il Nicaragua è stata la mia patria stabile dal 2003 fino all’anno scorso – aggiunge – Degli amici del posto hanno iniziato a lavorare con il cioccolato ed è nata Momotombo, tra le prime fabbriche di trasformazione e ora comunque la più importante. L’ho vista nascere anche se inizialmente non ero socia, lo sono diventata dopo qualche anno. Il Nicaragua era un paese che produceva cacao però non produceva cioccolato. Il cioccolato è comunque una invenzione europea, da sempre le materie prime venivano prese lì e poi trasformate in Europa”.
L’impegno in Momotombo, “per me era un motivo per mantenere un legame con il Nicaragua, avevo pensato che mi interessava perché conoscevo le piantagioni, i contadini, il paese”.
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