IL VINO COTTO DI ROCCAMONTEPIANO, DI NECESSITÀ VIRTÙ ALLE FALDE DELLA MAIELLA. CON LA RIPARTENZA PRESTO IL PRESIDIO SLOW FOOD

ROCCAMONTEPIANO – Primi di novembre senza Festa del Vino Cotto in piazza a Roccamontepiano (Chieti), misura necessaria per scongiurare ogni rischio di recidiva virus. A riscaldare gli animi penseranno i bravi ristoratori in paese, che sull’onda delle passate edizioni propongono in carta ormai definitivamente menu completi al vino cotto, orgoglio “inconfondibile” del territorio. Con la costituzione in cooperativa della comunità di piccoli produttori diffusi tra le estreme contrade teatine sotto la Maiella orientale, e la ricerca gastronomica dall’altro, qui si gioca al rilancio.
Ultima novità in ordine di tempo il “Panclaire”, bauletto lievitato al mosto e vino cotto presentato da Chiara Costantini, pasticceria di Chieti, in collaborazione con la locale condotta Slow Food e con l’Associazione regionale produttori vino cotto d’Abruzzo .
Parliamo di un prodotto – il vino cotto – di qualità assolutamente artigianale espressione dell’ingegno umano, del sapersi adattare alla scarsa vocazione alla viticoltura dei terreni esposti a nord-est , del desiderio di trasmettere una memoria nel tempo. Storia, sapienza e senso della comunità racchiusi in un sorso profumato, rotondo e asciutto, ambrato e impenetrabile, il vino cotto dei giorni di festa.
Una tradizione secolare oggi valorizzata da un marchio registrato con tanto di disciplinare di produzione. Ma soprattutto dall’entusiasmo crescente dei giovani intorno all’Associazione di base in contrada Terranova, riconosciuto centro di produzione del vino cotto di Roccamontepiano.
Terranova contrada bandiera del pregiato elisir tipico anche dell’Alto Vastese e dell’Alto Teramano (u’bambnell) fino al Piceno. “Qui a Roccamontepiano, zona pedemontana della Maiella orientale, una necessità e non una scelta” racconta a Virtù Quotidiane Camillo Fernando Conti, presidente dell’associazione roccolana. “Su terreni esposti a nord est era difficile portare l’uva a maturazione. La cottura del mosto serviva a farne aumentare la produzione zuccherina, un modo per compensare la carenze di sole. È così che si è radicata la tradizione del vino cotto”.
Necessità divenuta virtù con le nuove generazioni. Il vino cotto di Roccamontepiano – anche quest’anno produzione confermata intorno ai 10 quintali, commercializzati sul posto anche al dettaglio – è oggi considerato un ottimo prodotto da fine pasto, ingrediente versatile in cucina e a tutti gli effetti un elisir di lunga vita come saggiamente gli avi del posto avevano intuito e come dimostrerebbero i non pochi ultracentenari presenti sul territorio a fronte di un’alta produzione diffusa.
Fenomeno oggetto di studio della facoltà di agraria dell’università di Teramo, che ha dimostrato il potere antiossidante del prodotto grazie alla ricchezza di polifenoli (resveratrolo) contenuti. In quindici gradi alcolici, l’energia concentrata del frutto di partenza per affrontare i rigori della stagione fredda e la minaccia delle malattie degenerative.
Con l’aiuto del Gal Maiella Verde, appare imminente il riconoscimento di presidio Slow Food per il Vino cotto di Roccamontepiano. Una storia millenaria che si fa risalire all’antica Grecia. Storicamente, si racconta, il vino cotto è nato come prodotto di recupero, dallo scarto delle uve (bianche e nere) che il proprietario del terreno lasciava al contadino scegliendo per sé la migliore. Per non rischiare di restare senza vino, l’idea della riduzione a caldo del mosto, la cosiddetta interzatura, ottenendo un prodotto che lasciato in botti di legno subiva una lenta fermentazione e quindi l’invecchiamento. Un modo per bere tutto l’anno un vino forse migliore di quello del padrone.
Oggi, garantisce l’associazione, solo uve Montepulciano accuratamente selezionate al momento della vendemmia, pigiate e immediatamente messe a bollire in grandi caldaie d’acciaio inox – per motivi di sicurezza sanitaria quelle tradizionali in rame sono ormai impiegate solo nelle produzioni casalinghe – messe a bollire sulla apposite fornacelle in pietra o in terra cruda. Si schiumano le impurità che salgono a galla e si va avanti con la cottura a temperatura costante sotto gli 80°, fino a concentrare il volume del mosto di almeno quattro volte rispetto alla quantità iniziale.
Dopo ore di cottura e un’attenta valutazione della concentrazione e del colore del mosto in ebollizione, si stabilisce quanta parte di acini interi – la svacata – vanno aggiunti alla cottura.
Ridotta ancora, al limite che precede il bruciato, dalla cotta si preleva una parte, il mosto cotto, melassa concentrata e sciropposa che servirà alla preparazione dei dolci tradizionali – è ingrediente immancabile delle nevole ortonesi e fa da legante nel ripieno dei tradizionali bocconotti e celli pieni – e anche in cucina.
La cotta ulteriormente portata in riduzione viene quindi versata nel mosto fresco (di qualità) in quantità pari al volume perduto durante l’ebollizione. “Una procedura complessa nella cottura e fermentazione che distingue il nostro prodotto da tutti gli altri, come poi ben si coglie all’assaggio” sottolinea Conti.
In botte quel vino attende fino all’estate piena successiva, per essere valutato come idoneo o meno all’invecchiamento in cantina., fino a dieci anni per diventare vino cotto nuovo.
Tradizione vuole che si lasci a maturare una botte, barrique o tonneaux di rovere, nell’anno di nascita del figlio maschio (!) e che venga finalmente assaporato nel giorno del matrimonio di questi.
Secondo il disciplinare si distinguono tre tipologie di annate: vino cotto Superiore, invecchiato meno di 10 anni; Riserva, superiore a 10; Gran Riserva, oltre i 15 anni. Nel tempo il prodotto evolve preservando fragranza e qualità. All’assaggio intensità dicolore, profumo, dolcezza e sapidità (variabili secondo il residuo zuccherino presente) richiameranno tutti i sensi del gusto.
Vino cotto per l’inverno, esperienza appagante che promette benessere. Fine pasto ideale con i dolci secchi e natalizi, con le caldarroste fumanti, con le forme del latte, ricotte fresche, formaggi stagionati. Da non mancare l’accostamento più fragrante con la pesca gialla autunnale immersa a pezzi nel bicchiere di vino cotto, mangiaebevi campagnolo che tanto ha entusiasmato il fondatore di Eataly, Oscar Farinetti, insieme al resto del paniere km 0 e allo spiccato senso di convivialità dei roccolani.
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