PANDEMIA, DIGITALIZZAZIONE E AREE INTERNE: IL MOMENTO DI UN PROGETTO

L’AQUILA – Aree interne, una delle espressioni a cui nell’ultimo periodo sembriamo più affezionati, un tema che torna anche nell’emergenza legata alla pandemia da Covid-19, che ha messo fortemente in evidenza come le aree, che hanno dimostrato aver maggiore resistenza, siano quelle dove esiste, ed è ben radicata, una buona mixitè di funzioni, dove ci sono i servizi essenziali (scuola, sanità, welfare) e una buona integrazione del patrimonio costruito con il contesto ambientale e paesaggistico.
In questi giorni il dibattito urbanistico e architettonico della “città post Covid” si è focalizzato proprio sul ruolo che le aree interne e i piccoli borghi possono avere nella ripresa. Sappiamo che queste aree hanno grosse potenzialità da mettere in campo, ma per esprimerle hanno bisogno del supporto di politiche pubbliche dedicate, che guardino alle eccellenze locali, ai beni identitari, al commercio di prodotti, al turismo, alla residenzialità e alla valorizzazione del capitale umano locale.
In Italia abbiamo già esempi virtuosi che sembrano muoversi in questa direzione, seppur con alcune difficoltà: il progetto di turismo lento del nostro Santo Stefano di Sessanio; quello di recupero del borgo di Terravecchia (Salerno), che con fondi Por Fes è diventato un centro di formazione cinematografico; l’“Ecovillaggio” a Torri Superiore (Imola), e molti altri esempi da nord a sud.
Ottimi progetti locali, ma in tutti sembra mancare una strategica comune in grado di superare i campanilismi. Così per trovarla dobbiamo tornare proprio nel nostro Abruzzo, dove in una diversa direzione sembra andare il progetto “Borghi in rete”, un sistema d’impresa d’area vasta per commercio di prodotti tipici, turismo e servizi, che vede tra i borghi interessati Corfino, Barrea, Campo di Giove, Collelongo, Anversa degli Abruzzi e Fontecchio (dove esiste anche il progetto “Case-Botteghe”) in provincia dell’Aquila, Pizzoferrato, Tollo e Tufillo in provincia di Chieti.
Probabilmente è questa la via da seguire: fare rete tra territori per aumentarne la massa critica e renderli competitivi puntando oltre che sui servizi, sul commercio e sul turismo anche sull’azzeramento del digital divide, sulla messa in sicurezza territoriale e sul rafforzamento dei trasporti.
Bisogna rovesciare la visione “città centrica” e lavorare per costruire una visione diversa creando nuove connessioni materiali e immateriali tra le aree urbane e le aree interne. Come scrive Gino Pollini, “oggi più che mai, c’è bisogno di un modello culturale che rimetta al centro del desiderio individuale e collettivo la lentezza e l’appartenenza territoriale”, senza però dimenticare che viviamo nell’epoca del digitale.
Il lockdown, infatti, ha portato a riprogrammare le nostre abitudini di vita e lavoro. In questo scenario la tecnologia è stato un utile strumento per mitigare, almeno in parte, gli effetti dell’emergenza: telelavoro, lezioni di scuola in remoto, riunioni in webinar, lauree online, videochiamate. Non solo, la tecnologia ci ha permesso anche, attraverso i big data, di ottimizzare la logistica delle forniture mediche, di elaborare scenari di diffusione del virus, di valutare l’impatto delle misure di contenimento, e in un futuro prossimo permetterà anche di continuare a monitorare la diffusione del virus con speciali app.
Ma l’Italia era preparata a questa rivoluzione digitale? La risposta è no. La reazione c’è stata ma, come sempre, si è lavorato per mettere una pezza su un grosso strappo, su un grosso ritardo della diffusione delle tecnologie, soprattutto nei piccoli borghi e nelle aree interne.
Tuttavia, la crisi scatenata dal Covid-19 rappresenta davvero un’opportunità per il nostro Paese per accelerare i piani di digitalizzazione e recuperare rispetto a molti Paesi europei ed extraeuropei. È arrivato probabilmente il momento di una rivoluzione digitale. I dati Agcom mostrano che in Italia le linee con velocità superiore ai 30 Megabit al secondo sono passate dall’8,2% di dicembre 2015 a oltre il 55% del totale di quelle broadband e ultrabroadband a fine 2019. Ma a far uso di queste linee veloci, secondo il rapporto Desi, sono solo il 24% delle famiglie italiane contro il 41% delle famiglie europee.
Da questi dati emerge chiaramente che bisogna mettere in campo un progetto nazionale di sviluppo condiviso, un progetto di territorio a diverse scale, che muova dall’idea che tutti i territori, che in questi anni hanno sofferto per uno spopolamento dilagante, possano diventare contesti emergenti. Luoghi quindi dove la nuova infrastrutturazione, materiale e soprattutto immateriale, sappia tenere insieme temi quali mobilità, logistica, ambiente, cultura, turismo e welfare (sanità, scuola, l’accessibilità e sicurezza). Luana Di Lodovico