Personaggi 22 Apr 2019 09:05

CAMILLO CHIARIERI, IL CANTASTORIE D’ABRUZZO: “GLI STRANIERI CONOSCONO LA NOSTRA TERRA PIÙ DI NOI”

CAMILLO CHIARIERI, IL CANTASTORIE D’ABRUZZO: “GLI STRANIERI CONOSCONO LA NOSTRA TERRA PIÙ DI NOI”

PESCARA – Nell’antichità il cantastorie era con ogni probabilità, una sorta di artista di strada ante litteram. Le sue esibizioni, accompagnate in genere da un sottofondo musicale (soprattutto con la chitarra ma anche con la fisarmonica) portavano nelle piazze e nei luoghi di pubblico ritrovo, storie antiche e nuove, spesso rielaborate con interpretazioni ricche di fascino.

Tra folklore, narrazione e oralità, questa figura ha contribuito ovunque nei secoli e in maniera decisiva, a far entrare nel bagaglio culturale comune, centinaia di vicende altrimenti dimenticate.

Camillo Chiarieri, a suo modo, è un cantastorie ma del terzo millennio e in un mondo che procede a velocità smisurata ha scelto, attraverso le parole, di omaggiare, scoprire e far scoprire i segreti e le bellezze dell’Abruzzo anche a chi in Abruzzo abita da sempre.

“Il cantastorie narra concetti importanti in maniera semplice” dice a Virtù Quotidiane, “canta con leggerezza i miti fondanti della propria cultura e della propria società dando loro la sembianza di fiabe, il suo ruolo era antropologicamente e sociologicamente fondamentale… Il paragone quindi mi lusinga molto. Quando i greci partivano dalla loro città per andare a fondare una colonia non mancava mai un bardo? Anzi, il bardo era una figura fondamentale: doveva elaborare il racconto poetico della fondazione della colonia e farla diventare storia, affinché fosse tramandata e se ne conservasse memoria”.

Guida turistica da più di vent’anni, quella di Camillo Chiarieri è innanzitutto, per ragioni lavorative, una vita trascorsa a raccontare l’Abruzzo, anche se prima di narrarlo ha dovuto necessariamente capirlo, studiarlo approfonditamente, osservandone sfumature e contraddizioni.

Nato a Pescara nel 1970, dopo una Laurea in Scienze Politiche a Firenze, alla fine degli anni ’90 Camillo decide convintamente di tornare nella sua regione e sceglie di lavorare nel turismo, settore che già a quei tempi sembrava molto promettente.

“Allora c’era molto fermento, sembrava la nostra destinazione dovesse esplodere, turisticamente parlando, da un momento all’altro. Non fu così: una classe politica mediocre e una imprenditoriale ancora peggiore fecero sì che quell’inizio primavera non divenne mai estate, così nel comparto del turismo culturale c’erano già ampi segni di crisi già prima del 2009. Poi il terremoto dell’Aquila accelerò il processo”.

Probabilmente la molla di voler narrare l’Abruzzo, non solo ai turisti oltre regione ma anche agli abruzzesi, si materializza in quel momento: dopo molti anni di lavoro come guida turistica, Chiarieri comprende che i visitatori “stranieri” spesso conoscono meglio l’Abruzzo degli abruzzesi stessi.

“La nostra è una regione complessa, dalla storia intricata, segnata da una sorte mutevole. Quand’ero bambino, negli anni Settanta, non c’era nessuno in grado di dare chiavi di lettura a quello che si vedeva e si percepiva attorno: paesi bellissimi e deserti, poderosi castelli diroccati sulle cime dei monti, enormi recinti in pietra abbandonati sugli altipiani. Non capivo, non riuscivo proprio a comprendere cosa avesse appannato così tanto quegli evidenti segni di un passato fastoso e opulento”.

Passione innata, curiosità incessante, ricerca costante, acuta lungimiranza: tutte componenti che unite hanno dato vita al progetto di Camillo Chiarieri, quello di far emergere con un linguaggio adatto a tutti, lo straordinario patrimonio storico, artistico e culturale abruzzese.

Per questo, Camillo decide di non limitarsi soltanto a tenere conferenze per un pubblico esperto o produrre pubblicazioni (ne ha firmate diverse di grande interesse tra cui Storia delle storie d’Abruzzo mentre sono in fase di ultimazione una Storia di Pescara scritta a quattro mani con Mimmo Sarchiapone e una sorta di Decameron abruzzese con le più belle fiabe della nostra terra) ma ha scelto di raccontare la nostra regione anche in altri modi: attraverso spettacoli, incontri tematici e cene narrate, in collaborazione con ristoranti e agriturismi abruzzesi.

Certo è che raccontare una regione profondamente frammentata come l’Abruzzo (le varietà dialettali, anche tra centri limitrofi, ne sono un esempio) ha richiesto e richiede molto studio, passione e senso critico.

“Raccontando l’Abruzzo mi trovo di frequente a dire come la sorte sia stata spesso avversa, con questa regione… Per cercare le cause di effetti contemporanei dobbiamo andare indietro e la nostra storia, da secoli, dalla seconda metà del Cinquecento, è stata complicata, come quella di tutto il meridione italiano e forse anche di più. Dal XVI secolo al 1713 Napoli non fu più la capitale di un Regno, ma di un Viceregno, amministrato male da inetti nobili spagnoli; poi arrivarono i Borbone, sostituita a furor di popolo dai Savoia dopo un secolo e mezzo”.

“Ma i Savoia e tutto il loro establishment furono anche peggio – continua – . Esemplare la storia del più grande patriota risorgimentale abruzzese, il pennese Clemente De Caesaris, eletto nel primo Parlamento di Torino dopo l’unificazione, che durante una seduta tenne un discorso di fuoco (dichiarando tra l’altro: ‘Vi abbiamo chiesto aiuto perché eravamo orbi da un occhio e voi ci avete cavato anche l’altro’), poi lanciò in aula l’onorificenza ricevuta per aver fatto capitolare la piazzaforte di Pescara, permettendo a Vittorio Emanuele un passaggio che altrimenti stato complicatissimo, e si dimise”.

“La cosiddetta Guerra al Brigantaggio, che fu in realtà una guerra di Resistenza, costò all’Abruzzo 20.000 morti. Poi, proprio quando sembrava le cose migliorassero, nel 1915 ci fu il terribile terremoto della Marsica che ebbe conseguenze terribili in tutta la regione, con più di 30.000 morti. Contestualmente ci fu l’insensata mattanza della Prima Guerra Mondiale, sui fronti della quale fu proprio l’Abruzzo, insieme alla Calabria (guarda caso due regioni che avevano fatto parte del Regno delle Due Sicilie), a dare il più terribile contributo di sangue”.

“A guerra appena finita, nel 1918, un altro flagello terribile: l’influenza detta Spagnola. Ecco: tre generazioni di seguito colpite in maniera durissima determinano cadute drammatiche nel livello di cultura, di consapevolezza del proprio retaggio, di ‘civiltà’… Un gap che non si risolve facilmente: la sociologia ci dice che ci vogliono almeno altre due generazioni che vivano senza problemi per colmarlo. Se pensiamo invece che da noi sarebbe passata anche la Linea Gustav, uno dei fronti più importanti della Seconda Guerra Mondiale, portando ovunque morte e distruzione, si può capire cosa intendo. Non conoscere, ignorare questi fatti per noi abruzzesi è stata quasi una forma di autodifesa. Per andare all’Abruzzo pieno di storie e di bellezza bisognava fare un salto troppo indietro nel tempo, concettualmente ingestibile, psicologicamente insostenibile per i nostri nonni, circondati com’erano dalla miseria. Così i fili con il nostro passato si sono spezzati. Noi siamo i primi, dopo più di un secolo, ad avere la forza di poterci riappropriare del nostro passato e di tramutarlo in slancio per proiettarci verso un futuro migliore”.

Narrare un luogo insomma non vuol dire soltanto conoscerne bene strade e attrazioni principali: significa anche conoscere e interpretare i sentimenti e le emozioni di chi quei luoghi li ha vissuti e li vive. Quella della guida turistica continua ad essere per Camillo l’occupazione principale: sono ormai vent’anni che svolge questo lavoro in Abruzzo, per questo è stato spesso testimone di cambiamenti migliorativi ma anche di altrettanto immobilismo

“La maggior parte dei siti archeologici sono abbandonati a sé stessi e ormai scarsamente leggibili tra le selve dell’incuria; ci sono strade provinciali ormai quasi impraticabili, con le due corsie ridotte a una, tanto sono invase dai rovi, con segnali stradali sbiaditi dal sole e mangiati dalla ruggine, circondate da masserie deserte e intere frazioni abbandonate, tanto che percorrendole sembra essere i primi essere umani tornati in quelle contrade a vent’anni da una di quelle terribili epidemie medievali. E intorno (politica, classi dirigenti, stakeholder, come si dice ora) tutto è immobile, stantio, gelatinosamente avvolgente. E questo mi dispiace e mi deprime, mi deprime molto. Negli ultimi tempi mi chiedo sempre più spesso a cosa sia servito lottare e impegnarsi tanto vent’anni per poi non essere riuscito a cambiare la situazione di una virgola”.

Ma a proposito di cambiamenti e di tenacia, i progetti tutti abruzzesi di Camillo Chiarieri si sono arricchiti nell’ultimo periodo anche di una parentesi teatrale, in collaborazione con Marcello Sacerdote. I due sono infatti autori e interpreti dello spettacolo “Primiano: brigante per amore” ambientato in Abruzzo nella seconda metà dell’Ottocento e rappresentato già diverse volte in alcuni teatri abruzzesi.

“Primiano fa il pastore, desidera solo una vita tranquilla con l’amata fidanzata, ma un capriccio del potente padrone, patriota liberale ed eroe risorgimentale, vuole imporgli un matrimonio combinato al quale lui si ribella”, racconta Camillo.

“Ecco, basta questo per porlo fuori dalla legge e costringerlo a darsi alla macchia. Abbiamo effettuato un lungo lavoro di scrittura, narrando una storia antica in maniera moderna, con un montaggio veloce, ritmato, con repentini cambi di registro, l’uso di flashback, musica, canzoni. Il linguaggio usato è in parte l’italiano e in parte un dialetto che consente però la comprensione al più vasto pubblico possibile. Abbiamo già molte repliche in programma nei prossimi mesi e di questo sono felice: abbiamo lavorato alla storia del nostro ‘brigante per amore’ con tanta cura e affetto, curando prima ogni singola parola nella scrittura e poi ciascun gesto nella messa in scena, che vedere il pubblico partecipare alle rappresentazioni emozionato, indignato, commosso, ci fa pensare che il vecchio Zì Primiano, da ovunque si trovi, sia contento la sua storia non vada dimenticata”.


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