MAX D’ADDARIO, UN TALEBANO DEL GUSTO MADE IN PIANELLA

PIANELLA – “Non puoi paragonare l’olio al vino. Del vino puoi fare a meno ma non puoi mangiare senza olio, o peggio con un olio sbagliato, rovineresti tutto. È questo che la gente non ha ancora capito, e nemmeno i quotati ristoratori abruzzesi… “.
Quella di Massimiliano D’Addario, sedicente “talebano” di campagna, più che una crociata è religione. Olivicoltore, viticoltore e vignaiolo artigiano, Max incarna con fierezza, romanticismo, grande professionalità e tutta la responsabilità che un figlio unico – per giunta in età di “prendere moglie” – può sentirsi addosso, la quarta generazione dei D’Addario olivicoltori e contadini a Fontegallo, contrada a mezza costa alle falde del Gran Sasso vestino, arieggiata dalle brezze dell’Adriatico.
Quasi trenta ettari ammantati di olivi plurisecolari e piante giovani, monumenti naturali che capita di vedere intrecciati l’un l’altro, spettacolo antico e puro all’ombra del Gigante che dorme, il massiccio come lo chiamano d da questa parte. Dall’altra le vigne di pecorino, passerina, montepulciano d’Abruzzo.
Tendone, cordone speronato, nuovi impianti. E cereali, ceci, pomodoro a pera. Cumuli di letame a maturare, scambio di foraggio con l’azienda confinante, sovescio, semina. Nella visione biodinamica trasferitagli da Leonardo Seghetti, consulente tecnico e padre acquisito di Max , vita e campagna pari sono. Tutto ruota intorno alla fertilità della terra, la sua geodiversità.
“Quelle zolle di argilla e calcare che sotto il sole si spaccano ma non si sgretolano, rappresentano croce e delizia dell’agricoltura a Pianella, territorio vocato alla produzione dell’extravergine aprutino-pescarese” dice Max in un raro momento di pausa strappata alle sue infinite giornate.
Bacco, l’affezionato San Bernardo di otto anni che lo segue come un’ombra, ne approfitta per farsi coccolare dal suo padrone.
“Abbiamo il compito di conservare l’armonia di una terra viva e vitale sotto il cielo. È la mia filosofia di pensiero e di azione, che non rinchiuderò mai dietro un marchio certificato”.
Fertilità del terreno, vitalità naturale dei suoi frutti, benessere di chi ne fa uso e consumo. La chiusura del cerchio. Un mantra che Max ha fatto proprio riallacciandosi idealmente a chi gli ha trasmesso la passione e il senso ultimo della vita in campagna, nonno Emauretto, padre di suo papà, Emanuele, che figlio dei suoi tempi, ha ceduto alle fatue lusinghe della chimica per poi scontrarsi con i principi non convenzionali del figlio ormai cresciuto e convinto che la strada giusta da perseguire era quella del passato.
Uno scontro necessario, racconta Massimiliano, che per un tratto si è visto lottare in compagnia soltanto della propria determinazione. Una battaglia vinta per la buona pace della famiglia. E il buon nome dell’azienda, alla quale Massimiliano sta dando inedita visibilità e unicità mai conosciute prima.
Testa e cuore piantati profondamente nel territorio, Max parla al mondo con la lingua universale della qualità guidata dalla passione, un atout per qualunque Paese dove l’oro verde “Marina Palusci” (è il nome di sua madre) sia arrivato a farsi conoscere e apprezzare.
Centro e nord Europa, est europeo, centro America, Giappone. I clienti più estremi, nel senso di esigenti, sono i giapponesi, rivela Max. “Prendono l’olio come un farmaco, si assicurano la fornitura dei lotti più estremi de L’uomo di Ferro in confezione tascabile da cento ml. Una rivelazione gli ungheresi, entusiasti per gli oli floreali, mi attendono con ansia due volte l’anno per i corsi di assaggio che tengo negli istituti alberghieri, come dirgli di no?”.
Per il loro gusto e palato Massimiliano ha calibrato diverse tipologie di olio, diverse da quelle destinate al territorio nazionale. La sua valigetta è sempre pronta, rifornita di campioni. E poi le degustazioni e le fiere, ogni fine settimana impegnato con nuove mete da conquistare.
Gli oli extravergini Marina Palusci si distinguono per la grande pulizia gustativa. Top rated nelle guide di settore grazie ai portentosi monovarietali pensati “cartamodello alla mano, come gioielli di sartoria, l’ideale nel carrello di ristoranti d’autore”. Uno su tutti La Francescana di chef Bottura, dettosi “stregato” dal flavor di amaro e piccante profuso dall’Intosso aprutino-pescarese di Max.
Curiosa la genesi di quell’olio, racconta il giovane maestro d’olio e oleologo. “Se Marina Palusci produce anche extravergine di intosso, tradizionale oliva da mensa, si deve ai capi panel che non vanno in estasi se non avvertono il sentore di pomodoro verde in degustazione. È grazie a questa loro devianza che mi ritrovo un olio stellato! Abbiamo voluto credere nel potenziale dell’intosso e rimesso nuovi impianti con due cloni ad alta densità, l’autoctono di Pianella e quello di Piano La Roma, di Casoli, falde della Maiella. Vedremo”.
Un progetto varietale all’avanguardia e, intanto, una botta di notorietà quasi inaspettata. Complessivamente sono dodici le tipologie di olio – non filtrato – etichettate dall’azienda Palusci. Da olive dritta per il 90%, a seguire leccino, intosso, leccio del corno, frantoio, maurino, pendolino. Che a Massimiliano, in linea di massima, piace esaltare nella purezza del monovarietale. “È il futuro” sostiene, “qualcosa che va oltre il più raffinato olivaggio”.
È il caso del portentoso Uomo di Ferro da monocultivar Dritta raccolta a fine settembre dagli oliveti di contrada Pependone. Tra questi l’oliveto Capitano dove sorge – da oltre 450 anni – la Pianta Madre, il simbolo per eccellenza della proprietà dei D’Addario. Il patrimonio di famiglia, per intendersi.
“Un’esperienza sensoriale”. Tanto quel monovarietale è avvolgente di amaro e piccante, sapiente nella sintesi di toni vegetali e balsamici. Potente e perfetto mai come quest’anno, una bomba a mano dice Max senza falsa modestia. Un pieno di antiossidanti assicurati dalla raccolta precoce delle olive e dalla tecnologia di lavorazione.
Il frantoio Selva d’Abruzzo, di Moscufo, è un altro motivo di vanto strettamente legato al territorio. “Curano ottanta ettari di oliveto e lavorano olive per conto terzi, tra cui le nostre. Una collaborazione di cui vado fiero, si tratta del primo frantoio a due fasi esistente in Abruzzo”. Per il resto, buon senso e sensibilità del frantoiano nell’assecondare la vocazione della natura, come riassume e sintetizza l’accorto, tenace, ambizioso Max.
Altra produzione originale è Alchimia, monocultivar di Leccio del Corno, felice adattamento della tipica varietà toscana alla media collina vestina. Un’altra intuizione del nonno Emauretto che pensava a un olio da pesce, floreale, non invadente al palato. Il ricordo del nonno è sempre vivo nel quotidiano di Massimiliano. “È stato lui a mettermi sul trattore la prima volta, a sei anni” racconta con affetto , “sotto la sua guida ho fatto le prime esperienze agricole, molti dei risultati raggiunti sono la continuazione ideale delle sue felici intuizioni”.
“Nella nostra azienda abbiamo sempre conservato le sementi, ad esempio custodiamo una varietà di cece nero, ma non nerissimo, che nonno ha conservato per primo. Non solo. Presto usciremo con il vino di sette uve diverse allevate a tendone, frutto di un’unica vendemmia. Tutto insieme, Montepulciano, lambrusco salamino, moscato rosa, trebbiano, malvasia abruzzese e pecorino. Come usava fare il contadino di una volta, altra idea di Emauretto. Il colore è rosato, il sapore ricorda la rosa, lo abbiamo chiamato Rosae”. Saggezza dei padri, nuova consapevolezza di ritorno.
Se è importante progettare gli oli secondo l’utilizzo a cui sono destinati “con cura sartoriale, seguendo il cartamodello”, quello del vino è un mondo parallelo che appartiene ai sogni e alle favole, conviene Max. Che così svela la più recente, ma ugualmente totalizzante, passione per la vinificazione. Metodo naturale, va da sé. Fermentazione spontanea da lieviti indigeni, espressione del territorio da cui hanno origine.
Qui le parole chiave sono: tipicità e bevibilità. C’è la linea Senza Niente (no solfiti aggiunti, solo naturali) da vigneti giovani che mette d’accordo tutti, giovani consumatori e bevitori. Tre referenze di base, pecorino, cerasuolo e montepulciano. La linea Plenus è frutto della vigna vecchia, in totale autogestione del mosto. Quattro referenze bio, tra cui spicca il Pecorino Plenus, “primo pecorino del centro Italia dai sentori agrumati”. Suggestiva la narrazione in etichetta: raccolto con vendemmia notturna a fine agosto.
Quanto alla Passerina o “trebbiano scenciato” (“Scenciate” nel senso di spargolo, restio all’allegagione) come l’indimenticato nonno amava chiamare quell’uva della famiglia dei trebbiani, una riscoperta. Merito della sua rusticità, longevità nell’affinamento, ricchezza di antiossidanti. Su cui Max ha voluto scommettere imbottigliandola col tappo a vite “che ne rende più sicura e ottimale la conservazione”.
I vini Plenus sono composti solo da uva del vigneto Pependone selezionata a mano, a fermentazione spontanea con lieviti indigeni. Made in Pianella, insomma. “Vini contadini, bevibili e riconoscibili. Tutto il resto sono solo bevande”.
Sostieni Virtù Quotidiane
Puoi sostenere l'informazione indipendente del nostro giornale donando un contributo libero.
Cliccando su "Donazione" sosterrai gli articoli, gli approfondimenti e le inchieste dei giornalisti e delle giornaliste di Virtù Quotidiane, aiutandoci a raccontare tutti i giorni il territorio e le persone che lo abitano.